‘‘Dimidiato, mutilato, incompleto, nemico a se stesso è l’uomo contemporaneo.’’
(Italo Calvino su Il visconte dimezzato, da Nota 1960, ne I nostri antenati, Einaudi 1960)
Il 19 settembre del 1985, a Siena, scompariva Italo Calvino.
Sono passati trenta anni e ancora, a giugno del 2015,
nessuno sembra accorgersene. Al Salone Internazionale del Libro, edizione 2015,
Torino non ha ricordato, non diciamo
l’intellettuale o il ‘‘consulente della casa editrice Einaudi, per la quale dal
1971 diresse la collana Centopagine’’
(Dizionario bio-bibliografico della
Letteratura Italiana Einaudi, Torino 1990), ma neanche l’autore che, sin
dal 1947, nel suo catalogo fu, al contempo, punta di diamante (anche delle
entrate monetarie) e fiore all’occhiello della collana dei Gettoni, curata da Cesare Pavese.
Saremmo scientificamente
ansiosi di sapere il o i perché di un tale abissale vuoto di memoria – dal
quale non è escluso un certo Alessandro Baricco – però al momento ci terremo in
tasca ogni interrogativo cercando, piuttosto, di soddisfare qualche curiosità
riguardo la trilogia I nostri antenati,
edita da Einaudi nel 1960 e composta dai romanzi brevi Il visconte dimezzato, Il
barone rampante e Il cavaliere
inesistente.
Una prima curiosità che vorremmo toglierci, sarebbe quella
di capire come il fervido immaginario di Calvino venne visto, nei decenni
passati, da alcuni critici, curatori di voci di repertori o firmatari di
contributi presenti in volumi tematici, antologie o miscellanee, che non consultammo
in illo tempore – qui dunque escludendo le monografie e i testi più approfonditi
ed estesi (fra questi ultimi cito a memoria autori e/o luoghi: Salvatore
Guglielmino; Letteratura italiana
dell’Einaudi, a cura di Alberto Asor Rosa; Mario Lavagetto; Marco Belpoliti;
Cristina Benussi; Cesare Cases). Inoltre, sappiamo che probabilmente certe
questioni attinenti il Nostro ci prenderanno la mano fino a farci sgattaiolare su
vie e vicoletti d’altra natura – benché sempre derivanti o nascenti dal viale
principale – quindi di tale rischio avvisiamo
anticipatamente i lettori.
Ebbene, un argomento al volo, la letteratura e l’avanguardia, lo pigliamo dal saggio Le frontiere della critica di Sergio
Pautasso, edito nel 1972 da Garzanti.
Lí il critico torinese, vagliando con attenzione il libro Vero e falso (1964) del suo eminente
collega Angelo Guglielmi, scrive che ‘‘già Italo Calvino aveva scritto che «la
letteratura rivoluzionaria è sempre stata fantastica, satirica, utopistica». E
non a caso Calvino, il Calvino dei primi racconti fantastici dei Nostri antenati (...), è un altro dei
capisaldi di Vero e falso’’.
In Vero e falso,
precisa ancora Pautasso nel medesimo luogo, Guglielmi sostiene che nella
letteratura a lui contemporanea ‘‘ciò che conta è lo scarto della norma, il
rifiuto del realismo, in sostanza, l’irrazionale inteso come momento della
verità. La letteratura non deve affatto essere un rispecchiamento della realtà,
poiché è la realtà stessa, specie quella neo-capitalistica degli Anni Sessanta,
che ha perso quel posto privilegiato che le si poteva annettere un tempo’’.
Pautasso, poi, ci fa capire quale fosse, secondo la sua
disamina, la questione di fondo che divideva, seppur amichevolmente, Angelo
Guglielmi da Italo Calvino: ‘‘Guglielmi contestava a Calvino la partizione
dell’avanguardia in razionale e irrazionale e soprattutto la primogenitura
avanguardista che aveva dato alla linea razionale a scapito di quella
irrazionale’’.
Se Guglielmi insomma sosteneva che, nota Pautasso ‘‘la
letteratura non ha altra connotazione se non quella avanguardistica’’, questa
avanguardia per Guglielmi, specifica ancora Pautasso, doveva essere di tipo
irrazionale e non razionale; dunque Calvino, il quale invece era per
un’avanguardia razionale e neoilluministica, secondo Guglielmi sbagliava, pur
rientrando nella sua famiglia allargata.
Il punto di vista di quel Guglielmi del 1964, diciamo noi, restava perciò
esattamente questo: una volta statuito che un’opera letteraria vera, valida,
non debba essere legata al realismo, questa letteratura sanamente
avanguardistica dovrà scaturire, inoltre ed obbligatoriamente, da una visione
filosofica irrazionale e al contempo fortemente incisiva sulla lingua. Espressionismo, questa in una parola la
scelta di Angelo Guglielmi: egli ama spassionatamente il Giorgio Manganelli
dell’Hilarotragoedia (dunque crediamo
che avrebbe amato anche il Vincenzo Consolo dello Spasimo di Palermo) e a cuor piú freddo apprezza Gadda, D’Arrigo e
Landolfi.
Be’, ci pare questione importante, questa, ossia, in poche domande:
che relazione è meglio che intercorra fra l’uomo e la parola da lui scritta
nelle opere letterarie? E la letteratura può avere una sua vera funzione
positiva solo se cerchi di innovare il rapporto fra lo scrittore e le parole
già esistenti? Ancora: un autore può veramente scrivere un’opera senza, nel
farlo, comprendere e sistematizzare, seppur con genialità, il suo lessico e ciò
di cui egli vuol parlare?
In soldoni ci chiediamo: è mai esistita al mondo una
letteratura avanguardistico-irrazionale
che non fosse – e non sia – un semplice delirio autoreferenziale,
incomprensibile dunque sia nel momento in cui un libro è uscito sia dopo ed
eternamente presso gli uomini?
C’è poco da fare. La risposta è che una norma razionale,
storicistica e intrisa di luoghi comuni – molti dei quali d’origine archetipica
direbbe Jung – non può che essere oggi e sempre l’unico metro di valutazione
solido per chi voglia capire e sentire anche nel cosiddetto cuore le opere
d’arte, qualsiasi opera d’arte. E cos’è lo storicismo? È la teoria dello
sviluppo della realtà grazie ad una concatenazione coerente di vari momenti
fatti di dialettica causa-effetto; a dirla in due sciocche parole: la Storia si evolve perché,
pur nascendo dagli archetipi – che sono fuori dalla portata umana – tutti gli
anelli successivi sono il frutto, consequenziale razionalizzabile e para-chimico, del rimescolamento degli
elementi fra loro. Eccone un esempio: cos’è la polvere da sparo? La
combinazione di zolfo, carbone e salnitro. Da questa si possono ottenere altri
risultati e poi altri ancora. Ogni ricomposizione e modifica degli elementi
base è razionalizzabile e dunque, appunto, storicizzabile: ogni passaggio fa
storia. E dove sono la coerenza e il perché di queste ricomposizioni? Adesso lo
vedremo.
Ecco: alla base di tutto il processo, non c’è la
comprensione da parte dell’uomo delle origini vere degli elementi che lui usa e
mescola, ma la sua razionalità nel cercare dei risultati. La coerenza della storia umana – e di ogni prodotto
umano – risiede dunque esclusivamente nell’essere ignorante dei massimi sistemi
e nell’aggrapparsi a quanto esistente, cercando il benessere, che è il risultato
detto in altre parole. Cambiando l’idea di benessere, poiché l’uomo stesso
chimicamente muta, cambiano anche i risultati di dette operazioni.
E gli scrittori? I bravi scrittori sono dei chimici della
letteratura che aggiungono un briciolo di follia a tali, naturali, operazioni
di quotidiana alchimia storica... un
briciolo solo di follia, però, attenzione: la follia completa non è letteratura
e non è umanità, è morte che entra nella sfera della vita per dire all’uomo, al
singolo uomo da essa colpito, che è ora di tornare agli archetipi, all’altro (che non possiamo vedere se non
come assenza di vita comprensibile, sensibile, sentimentale: ossia morte – la parola che non ha senso e che
andrebbe sempre taciuta).
Dunque la
Storia razionale fatta dall’uomo – e riguardante tutto quel
che l’uomo vuol storicizzare – non può in nessun caso eludere né la razionalità
né Dio, o almeno il fattore metafisico, poiché l’origine prima di ogni atomo è
a tutti razionalmente ignota. E l’ignoto è sempre superiore al noto: anzi crediamo
che ne sia la scaturigine.
Ciò assodato, vediamo ora di prescindere in fatto di
letteratura cosa sia buono e cosa non lo sia.
Poiché la morte è fuori dalla comprensione umana, la buona
letteratura dovrebbe rielaborare la vita e/o la presumibile non-vita (spieghiamoci:
può parlare di uomini, piante animali o sassi, ivi compresi i sogni e le
allucinazioni) senza scomodare l’oltretomba, che è dominio dei testi sacri –
cosa che i moderni invece hanno il viziaccio di fare spesso e con inevitabile
superficialità. Il riconoscimento della vita, in senso panteistico diciamo noi,
e il suo approfondimento, è quanto gli uomini sani chiedono alla letteratura,
non la stupida esaltazione di una morte che nessun uomo può riferire o
approfondire per ovvia impossibilità materiale di entrarne a contatto e poi
poterne riferire qualcosa a qualcuno (tantomeno con quattro facili chiacchierette
scritte). Dante è caso a parte, sia chiaro: la sua è una orazione in ossequio
di una teologia approfondita, non è letteratura, per niente! Dante è un
teologo, anzi è, come quasi tutti suoi colleghi medievali, un umile servitore
di Dio che mette un uno per cento di se stesso nel novantanove per cento di
divulgazione dei Testi Sacri cristiani, dando loro il posto che loro spetta:
quello di intoccabili rivelazioni. A questo proposito ci sovviene anche una
recente affermazione del filosofo Umberto Galimberti: ‘‘Se tu al Medioevo togli
la parola Dio non puoi capire il
Medioevo, se la togli al mondo moderno, invece, il mondo moderno lo capisci
ugualmente; ma se al mondo moderno tu togli le parole denaro e tecnologia,
allora non potrai capire il mondo moderno’’.
Ma torniamo a Calvino e alla critica dei tempi passati…
anche perché abbiamo trovato un giudizio complessivo della sua natura
letteraria che ci sembra interessante. L’opinione è di Walter Pedullà e, come
spesso gli accade quando scrive cose divulgative di Storia letteraria,
l’illustre italianista va sul discorsivo, sulla lingua colloquiale. E riguardo
al Nostro si esprime come segue:
‘‘Calvino non si lascia coinvolgere e tuttavia non è uno
spettatore, malgrado il suo distacco da osservatore di ere lontane, dinosauri,
fossili e conchiglie. Anche lui si è fatto il guscio duro e da tale corazza
guarda l’attualità con un occhio che la raggela per esaminarla in trasparenza
di ghiaccio. Calvino vede scheletri e schemi prima che carne o nervi. In verità
la sua prosa non ha mai i nervi e la carne è spesso surgelata ma dopo un po’
che camminano in un suo romanzo i personaggi ti fanno venire il sangue caldo
alla testa, se ci pensi. Come dire che Calvino continua a trafficare con le
strutture, quando quelli degli altri sono peccati di carne’’.
Spiritoso e bonario, qui, Pedullà, nel volumetto La narrativa italiana contemporanea –
1940/1990, edito da Newton Compton nel 1995.
Parziale, amorevole e comparativistico, invece, è Giacinto
Spagnoletti, il quale, nella sua Storia
della letteratura italiana del Novecento (Newton Compton, 1994) sembra
farsi catturare, come Europa da Giove, solo dal Barone rampante, trascurando gli altri due romanzi brevi della Trilogia. Grazie a Spagnoletti,
tuttavia, emerge un buon approfondimento di Cosimo di Rondò:
‘‘Certo la correzione che Calvino opera su questo destino
di solitudine che grava sul personaggio, è di tipo ironico, appena avvolta da
un velo elegiaco. Come egli si fa beffe del romanzo storico tradizionale,
opponendogli l’asciutta e cerebrale fantasticheria del Barone di Münchausen, le magiche trasparenze di Alice nel paese delle meraviglie e di Peter Pan, altrettanto bene sfuma la
pensosità del suo Barone, evitando la forzatura tinteggiante di qualunque eroe
romantico, il volontarismo di un Alfieri o di un Byron. Nonostante questo
preciso richiamo alla grande favolistica moderna e l’utopia, da cui non si
allontana mai, con il suo carattere verso la fine di operetta morale, resta il
fatto che Il barone rampante si legge
come un libro di invidiabile salute e pieno di un costante diletto. Uno di quei
libri nei quali gli episodi che si ricordano rintracciano quelli che si sono
dimenticati, come in una scenografia aperta, nel segno di una grazia riservata
alla grande narrativa attuale.’’
Ugo Dotti, nella sua recente Storia della letteratura italiana (Carocci, 2007), traccia un
bilancio a volo d’uccello, ma d’indiscutibile superficialità, sui tre romanzi;
cosí Il visconte dimezzato viene
bollato come ‘‘l’emblema (...) della personalità umana dissociata in un mondo –
quello della ‘‘guerra fredda’’ – che pareva agevolare queste dissociazioni’’ e
poco altro (si allude a Marx e a Freud). Il
barone rampante, poi, ‘‘è evidentemente il ritratto – quanto mai spiritoso
e dobbiamo ancora ripetere, problematico – dell’intellettuale che vuole
stabilire un rapporto un po’ speciale con la realtà che lo circonda’’ (a questo
si aggiunge l’arbitraria supposizione che ‘‘Calvino non si sia dimenticato di
Aristofane e del suo Socrate tra le nuvole’’). Infine Il cavaliere inesistente ‘‘allude evidentemente (...) non solo al
venir meno, ma addirittura all’esaurirsi della singola personalità umana
all’interno di una professione.’’ Ultimo lampo di genio del Dotti è
l’accostamento, altrettanto banale, dell’opera complessiva calviniana a quella
di Leonardo Sciascia, anche se ‘‘su un piano minore’’. Meno male.
Lasciamo stare Alberto Asor Rosa e la sua Sintesi di storia della letteratura italiana
(La Nuova Italia,
1979), dove sono presenti solo poche righe sul Nostro (invece, ricordiamo,
nella Storia e antologia della
letteratura italiana in ventitré volumi curata dal medesimo critico per la
stessa casa editrice, la parte di Calvino veniva trattata estesamente ma da un
altro, tal A. Abruzzese) e non riportiamo nemmeno le solite noiose osservazioni
per liceali di Mario Pazzaglia e del Vanalesti.
E per ora chiudiamo qui. Dopotutto questo semplice articolo
è una rievocazione: serve solo a ingannare l’attesa di colui che ohibò, in mente populi non ritorna, anche se
ormai nel panorama letterario italiano è notte fonda e una qualche facella
servirebbe almeno per ritrovare, a tastoni, la carta e il calamaio.
Sergio Sozi
Social Network