Con Jonathan Galassi all'hotel TownHouse |
Immaginate di voler da sempre lavorare tra i libri e con i libri e che il momento più tragico dei vostri traslochi consista nel trasferire i libri da una casa all'altra. Ecco, avrete una pur pallida idea della felicità ricevendo il comunicato stampa in anteprima da Guanda in cui si annunciava l'uscita di "La Musa" (leggi la recensione), l'esordio narrativo di Jonathan Galassi, il cui nome è subito accostato all'editoria culturale americana, e dal 1986 alla Farrar, Straus & Giroux, dove ricopre anche il ruolo di presidente. In più, Galassi non era un nome nuovo per me: lo avevo incontrato in uno splendido corso universitario di Letterature Comparate, in cui Montale veniva analizzato nelle sue traduzioni americane. E chi era il traduttore? Galassi, appunto. Infine, aggiungete che Galassi ha parlato in vari incontri del futuro dell'editoria, e quindi ha uno sguardo lucido sul presente che può permettere ipotesi su quanto accadrà.
La proposta di incontrare Jonathan Galassi a Milano, al bellissimo TownHouse della Galleria, è stata un'occasione unica. Se la sua competenza era nota, non avevo idea di quanto potesse essere piacevole, simpatico e disponibile nelle interviste. E dunque eccoci, per quasi un'ora di chiacchierata in una mattina afosa milanese...
DA "LA MUSA" ALL'EDITORIA...
Lei ha restituito un "frammento del mondo che un tempo esisteva al posto del nostro". Guardando il presente in controluce, quali grandi eredità ci sono?
Il mondo del quale ho scritto esiste ancora nelle persone che fanno il lavoro con la stessa cura del passato e sono tante. Noi editori di cultura siamo cresciuti con i vecchi, abbiamo visto ciò che hanno fatto grazie alle loro inclinazioni e al loro amore per gli autori. Penso che non si entri nell'editoria senza avere questo interesse profondo per il lavoro degli scrittori. Ma il sistema è cambiato, come tutto il ciclo della produzione industriale. Perciò questi amanti della letteratura hanno dovuto trovare un modo nuovo di lavorare, dentro un nuovo sistema economico.
All'interno del romanzo, Ida Perkins, poetessa amata dalla critica e dal pubblico (per non parlare degli editori!), scrive per
evadere ma anche per capire gli errori che fa durante il giorno. La poesia è la via privilegiata per arrivare all'io?
Con Jonathan Galassi, durante l'intervista |
Ida
scrive per comprendersi, scrive apertamente, senza chiudere in uno
scrigno i suoi segreti; il suo modo di scrivere è molto attaccato al
reale; per il poeta la presenza dell'io è diversa rispetto alla narrativa.
L'io poetico è fortemente simbolico, la sua percezione è più semplice; nella narrativa
mi pare che la relazione tra l'io reale e l'io sulla pagina sia più
complessa. Forse negli ultimi anni, c'è stato un intervento nella
narrativa che ha trascinato l'io poetico nella narrativa: non so se è
tanto buono per il romanzo, ma sta accadendo. Se pensiamo a Montale, ad
esempio, lui ha definito la sua opera come "romanzetto", ma la
definizione è impropria: ci sono istantanee della sua vita, ma
soprattutto emozioni, riflessioni, mentre nella narrativa dobbiamo avere
azione ed esperienza.
Proprio a tal proposito, si sente sempre parlare di uno scontro
tra fiction e autofiction. Secondo Lei questa rinascita dell'autofiction
è dovuta all'egocentrismo e all'egoarchia contemporanea?
Non
è questa la vita che abbiamo adesso? Una vita ossessionata dal sé.
Infatti la narrazione è sempre più egocentrata, ci sono scrittori come
Roth, i cui protagonisti sono sempre una versione di lui, per quanto
traslati. Anche Moravia o Bellow hanno usato le loro
esperienze per il romanzo. Allora l'autofiction non è una cosa nuova,
l'abbiamo ereditata e forse adesso la esercitiamo con meno bravura, senza l'arte dei
nostri predecessori.
Quest'anno in Italia la maturità ha proposto una
traccia su letteratura come esperienza di vita. Lei cosa pensa? La
letteratura parte dell'esperienza, è un superamento di questa o...?
Non
credo che la letteratura sia pura esperienza: come ha detto Wordsworth,
è l'esperienza riflessa e ripensata nella solitudine del dopo. Deve
esserci un intervallo di tempo tra esperienza, riflessione e poi scrittura. Lì,
nella soltudine c'è anche un ripensamento che può portare al rimprovero
di quanto fatto...
Pensando a La Musa, in alcune interviste ha dichiarato che il giovane Paul è il personaggio più vicino a Lei, che meglio attinge al patrimonio di ricordi legati alle prime esperienze in editoria. In effetti, Paul è un personaggio che è facile sentire vicino, soprattutto per chi vuole lavorare nell'editoria. Da un lato Paul è pieno di titubanze, ma non ne ha quando sceglie un manoscritto da pubblicare. Quali caratteristiche deve avere una persona che vuole lavorare nell'editoria oggi?
Secondo me le stesse qualità di sempre: aver letto molto, sapere ciò che ama ed esprimerlo con agio, poter scegliere il manoscritto senza troppe difficoltà... Questo avviene con l'esperienza, ma se sei editore, tu sai cosa va bene: mai scegliere un libro che pensi possa vendere; più tardi si può scegliere tra un buon libro che è buono ma per pochi e un buon libro che potrebbe piacere a tanti, ma per prima cosa deve essere buono per te. Se uno non crede nel valore delle sue scelte, non avrà successo come editore.
Quindi quando e quanto può rischiare un editore per pubblicare un talento?
Quando? Sempre. Quanto è un'altra cosa, perché subentra il mercato e l'esperienza di vedere vendere o non vendere i libri che ami è molto importante (e anche frustrante!) per noi editori. Ci sono bellissimi libri che piaceranno a pochi, come forse il mio romanzo, ma anche questi libri devono essere pubblicati. D'altra parte, una casa editrice si basa sulla conoscenza del gusto pubblico e al tempo stesso può contribuire a condurre i lettori ai libri buoni, ma i lettori devono essere preparati ad amarli. Se un editore è troppo avanti, non avrà tanto successo; deve essere sulla cresta dell'onda, e lì incontrerà il lettore. È un'arte.
Adesso che è passato dall'altra parte della barricata, cambierà il suo rapporto con gli scrittori con cui lavora?
Forse sarò più comprensivo e dolce con loro! È molto difficile essere la carne che o si vende o non si vende!
Poi c'è un'altra
componente: tutti vogliono essere scrittori e pochi vogliono leggere. La
letteratura ha dentro di sé il senso di far parte di un'esperienza, di
un tutto. Se uno scrive un libro, diventa un soldato nell'armata degli
scrittori. L'autofiction, il self-publishing fanno parte di quest'idea
di immediatezza... Da noi con Amazon si può scrivere un libro un giorno e
pubblicarlo il successivo. L'editore è un filtro invece fondamentale
per la cultura: l'editore di qualità
contribuisce a indirizzare il fiume della letteratura. Ci sono persone alle
quali non piace questo fatto: possono dire che è una concezione
elitaria; un'amica scrittrice diceva: "Quando ero giovane, l'elitismo era
una buona cosa". Si possono avere libri grandi che vanno in tutte le
direzioni, politiche, culturali, ma il senso della qualità è
fondamentale: la storia avrà l'ultima parola; gli altri diranno chi sono
gli autori di adesso che sono importanti, non noi. Gli scrittori del
futuro decideranno il canone di oggi. Noi non possiamo prevedere il
futuro: tocca a noi editori seguire le nostre convinzioni, sapendo che
molto probabilmente sbagliamo. Ma non dobbiamo essere corretti sempre;
invece dobbiamo seguire ciò in cui crediamo. Il futuro si occuperà del
resto.
E intanto? Ha un senso per lo scrittore leggere oggi le recensioni delle sue opere?
Come scrittore, sono debuttante e allora le leggo. Come editore, invece, dico sempre agli scrittori: non leggere le recensioni, misurale!
Come scrittore, sono debuttante e allora le leggo. Come editore, invece, dico sempre agli scrittori: non leggere le recensioni, misurale!
Un'ultima domanda, legata sempre al mondo della comunicazione. Lo scrittore di oggi deve essere "social" e comunicare con i suoi lettori utilizzando tutti i canali possibili?
Credo che non esista una risposta semplice: una scrittrice come Elena Ferrante non si occupa di social media, ma noi ci occupiamo di lei in quantità. Secondo me è una questione di temperamento dell'autore e di politica editoriale: se hai un editore che ti spinge a partecipare molto, va bene; ma io credo sempre che l'importante per un autore sia scrivere. Soffro quando uno scrittore di grande talento come Franzen deve spendere metà del suo anno a fare festival e parlare dei libri: è un secondo lavoro per lui. D'altra parte, noi editori non vendiamo libri, noi vendiamo scrittori. Vendiamo il senso (falso anche) di conoscere queste persone. Questo è molto legato all'idea di autofiction di cui parlavamo prima: i lettori vogliono essere vicini agli scrittori; amano i libri ma gli editori creano l'illusione della relazione tra scrittori e lettori.
E il desiderio di stare vicino agli scrittori si palesa quando chiedo a Jonathan Galassi un autografo e un'ultima foto insieme. Ma ci sono altri ricordi che non possono essere trasferiti sulla carta, come l'entusiasmo con cui Galassi mi ha chiesto del Fondo Manoscritti di Pavia, dove ci sono le carte di Montale, o la vigorosa vivacità della stretta di mano. Per non parlare del suo augurio di realizzare tanto nel futuro...
GMGhioni
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