“Anime di vetro”, Einaudi, è la nuova avventura, l’ottava, del commissario Ricciardi, l’investigatore nato dalla penna napoletanissima di Maurizio De Giovanni.
Maurizio vuoi dare intanto un primo ritratto, specialmente per chi non lo conosce, di questo personaggio?
«Ricciardi è un vecchio amico a cui volere bene, perché pure noi abbiamo di quei momenti ombrosi, ci sentiamo sconfitti, vorremmo, o dovremmo, ma non riusciamo a fare. Sorride poco, è un meridionale atipico perfino nei tratti visto che è un cilentano, peraltro non di mare, dagli occhi verdi».
Napoli perché? Oltre a esserti familiare, cosa ha in più per accogliere le storie di Ricciardi?
«La Napoli fascista del commissario Ricciardi è una città forzatamente sottoposta a ritocco d’immagine dal regime. Eppure si profilano baraccopoli come oggi potrebbero essere a Caracas. Ma le scopri uscendo dalla retorica. Ricciardi le vede perché è tutto meno che retorico. Napoli fa da protagonista e non da sfondo alle storie di questo commissario. Bologna è lo sfondo perfetto per i libri di Carlo Lucarelli, Napoli invece scavalca la barriera e diventa un personaggio. Con le sue caratteristiche di metropoli sudamericana, di disordine, fantasia e tolleranza. Ho scelto un cilentano, non a caso, perché va comunque guardata da fuori».
L’epoca: anni Trenta. Siamo in pieno fascismo, anzi è il decennio del consenso al regime. Come si comporta uno scrittore da un punto di vista metodologico, documentativo, quando non ambienta le sue storie nel presente?
«A un certo punto di “Anime di vetro” c’è un elemento tipico della vita napoletana dei decenni scorsi: l’imbottigliamento dei pomodori. Era un rito incredibile, comunitario, intere famiglie impegnate a lavare, asciugare le bottiglie, a sbucciare i pomodori, a spremerli. Bene, questo aneddoto di cronaca entra subito nel romanzo. È funzionale. Altre cose non servono e non bisogna cadere nella tentazione di raccontarle. Si diventerebbe saggisti e non più narratori».
Capita di incrociare sempre nuovi ispettori nella letteratura italiana. Mi sono domandato che cosa dobbiamo ancora scoprire di così torbido. Certo, viviamo in un paese che non è un modello di trasparenza. Ma perché tutti questi commissari, tutte queste indagini?
«A dire il vero non è un fenomeno solo italiano ma è innegabile che il giallo e il noir stiano vivendo una fortuna come mai avevano avuto. Io dico questo: il noir è l’unico modo di camminare per strada. Molti libri di successo parlano di saghe familiari e sentimenti individuali. Per raccontare ciò che succede fuori dalle mura di una casa o da una coppia di innamorati serve un delitto. Un mistero da capire. Soprattutto cogliere perché certi sentimenti, i più nobili, possano portare a scelte e azioni che li contraddicono ferocemente. Il noir è lo strumento per avvicinare gli aspetti ignoti della società che ci fanno paura».
Venendo ad “Anime di vetro”, Ricciardi sta passando un momento difficile da un punto di vista personale. E questo trasforma il noir in un mosaico raffinato, scandito da interludi che sono le note di una delle canzoni storiche del repertorio partenopeo: Palomma ’e notte di Salvatore Di Giacomo. Perché proprio questa canzone?
Allora ti dico che pure i prossimi due libri del commissario Ricciardi avranno una colonna sonora che più napoletana non si può: e se ti racconto la storia di Palomma ’e notte capisci che forza evocativa su noi scrittori napoletani hanno le storie di Napoli. Volevo un sentimento raccontato da una canzone. Salvatore Di Giacomo era un grande poeta e un viveur quarantacinquenne, con una madre molto autoritaria. Un giorno si presenta alla biblioteca dove lavora una ragazza di 24 anni, si chiama Elisa e vuole laurearsi, cosa di per sé assurda per le convenzioni dell’epoca. In più s’innamora di Salvatore pur avendo 20 anni di meno. Roba da scandalo eterno. Bene: Salvatore le dedica Palomma ’e notte per ricordare che, se decide di volare accanto a lui, come una falena notturna attratta dalla fiamma di una candela, rischia di bruciarsi. Di Giacomo vuole metterla in guardia intimando: torna all’aria aperta, sono un fuoco pericoloso. Così prova a scacciarla e proprio in quel momento è la mano dell’uomo a bruciarsi alla fiamma della candela. Ecco le falene del sottotitolo per il commissario Ricciardi. Considera che Elisa e Di Giacomo restarono 11 anni uniti senza ufficializzare la cosa, finché non morì la madre di lui. Quindi si sposarono e vissero assieme fino al 1934, anno della morte del poeta. Elisa bruciò tutto quanto le aveva scritto. Si salvò solo un mazzetto di lettere, riscoperto da un restauratore per caso nel 1950. Fra queste c’era la prima lettera dove Salvatore Di Giacomo parlò a Elisa grazie a Palomma ’e notte».
In effetti, Ricciardi deve fare i conti con le sue falene, le donne che lo amano e che hanno visto la sua fiamma. I personaggi sono delicati cristalli che lasciano intravedere ciò di cui sono fatti: grandi tenerezze, sentimenti, cattiverie e dolori. In nome di queste sensazioni si può seguire la strada dell’isolamento, è il caso di Ricciardi, o la strada di scelte folli che annullano perfino gli ultimi residui di dignità, è il caso di Romualdo Palmieri, conte di Roccaspina. E un comune denominatore si espande sulla trama: il sacrificio. Lo possiamo definire un romanzo di rinunce che rendono tutti un po’ dannati?
«Be’, in fondo, la rinuncia è un’amputazione che porta alla sindrome della mancanza. Roccaspina ne compie una enorme, Ricciardi, al pari di Salvatore Di Giacomo, reputa questo suo riflesso soltanto un pericolo per le falene che gli volano attorno. Ma rinunciare ad amare, in fondo cos’è se non una forma di protezione, di amore? A un certo punto, una delle donne, forse la più importante, Enrica, si chiede: a che serve tutto questo mare? E pare che dinanzi a lei, Ricciardi si sciolga in un naufragio, in un monologo “delirante” partendo da questa domanda. La risposta è che non è possibile immaginarlo.
Sui miei personaggi aggiungo che non preparo le storie che li coinvolgono. Preparo lo sfondo giallo, ovviamente, poi però i personaggi fanno quello che vogliono e io devo solo raccontarli. Enrica, ad esempio, in questo ottavo capitolo della serie, ha preso una decisione, di testa più che di cuore, che le ha consentito di acquistare individualità. Vedremo fino a dove».
In questa sua deriva, Ricciardi trova uno stimolo inatteso e riapre le indagini, non ufficialmente, su una morte avvenuta qualche mese prima: una donna bellissima gli chiede di scoprire la verità, più per egoismo, o narcisismo. Ma tant’è, Ricciardi si dà una mossa e incrocia i tentacoli misteriosi dell’Ovra incarnata da Falco. E comincia una sfida nell’ombra: Ricciardi si muove senza fare sapere nulla ai suoi colleghi, salvo a un paio di fidatissimi amici. Falco è per natura capace di seguire senza farsi scoprire. Sono due animali adattissimi a competere in una terra fatta di incognite e amori, di femmine fatali e lacerazioni. Due falene.
«Falco è un altro personaggio in crescita: nei precedenti episodi, viveva solo in relazione a Livia, un’altra donna che ruota attorno a Ricciardi. Adesso, Falco svolta e si fa protagonista. Ha una sua radice storica: recentemente sono stati aperti gli archivi dell’Ovra e abbiamo scoperto che solo a Napoli l’organizzazione poteva contare su 1.500 informatori. Un numero enorme che implica l’esistenza di una grande ragnatela di cui Falco decide di mettersi al centro. È un uomo raffinato, deciso, notturno. Certamente un bel cattivo, un bel nemico».
Possiamo conoscere le canzoni che faranno da colonna sonora nei prossimi due episodi di Ricciardi?
«Intanto se mi serve una canzone che racconti un sentimento devo essere attento nella scelta. E siccome i prossimi due libri ci porteranno nei terreni, rispettivamente, di gelosia e tradimento, ecco che la colonna sonora del primo sarà Voce ’e notte scritta dal giovane poeta Eduardo Nicolardi, che aveva perso l’amata, andata in sposa, per volere dei genitori di lei, a un ricco settantacinquenne. Nicolardi la scrive di getto il giorno del matrimonio, un ciabattino in due ore la mette in musica e la sera stessa va a portare la serenata sotto casa della donna amata che sta vivendo la prima notte di nozze. E nella canzone lei diventa la Sposa e lui diventa la Voce. Non la chiama per nome, non si chiama per nome perché sa che per farle arrivare il suo amore basterà ’na voce ’e notte. E se la voce sveglierà lo sposo, prosegue il testo, digli pure che questa serenata è senza dedica, frutto solo di un pazzo in un vicolo. Ma le canzoni sono potenti e dopo poco tempo il settantacinquenne muore e i due giovani possono sposarsi. Avranno nove figli.
Per il tradimento ho scelto invece Rundinella. Racconta di un uomo che da tre giorni è stato abbandonato dalla donna amata e che a tutti gli amici dice semplicemente: è partita ma tornerà. Solo con il suo migliore amico non è riuscito a confidarsi: nun ll’aggio visto e nun c’è cchiù venuto…, dice il testo. Che si chiude con una domanda: forse è partito pure lui?».
Marco Caneschi
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