di Sarban
traduzione di
Roberto Colajanni
Adelphi Edizioni
pp. 174
€ 18
Nel 1951 Ernst Jünger ha scritto Il Trattato del Ribelle (Der Waldgang), un
saggio socio-politico in cui, facendo leva sul concetto di “passare nel bosco”,
ovvero di “darsi alla macchia”, si ragiona sulle modalità e sulle possibilità
di un uomo di dichiararsi “libero ed indipendente” durante un periodo/ luogo in
cui domina la tirannia e il totalitarismo. Il
richiamo del corno (The Sound of His Horn) è stato scritto da Sarban (pseudonimo che in parsi
significa “carovaniere”), il cui vero
nome è John William Wall, ed è, nella formula del racconto lungo, una sorta di “controcanto non volontario” all’opera
di Jünger. Da un certo punto di vista infatti, se nel libro del pensatore
tedesco l’uomo, in determinati momenti, “per potersi dire veramente libero deve
passare il bosco”, nel libro del diplomatico inglese “per potersi dire
veramente schiavo si deve passare il bosco”. Tra l’uno e l’altro nonostante siano usciti ad un solo anno di differenza, si registra una diversa visione del
mondo: tanto Jünger era un profondamente modernista e convinto che i miti
antichi avrebbero salvato la contemporaneità, tanto Sarban/Wall era un
medioevista, convinto che solo nelle inquietanti fiabe e leggende si poteva
rintracciare un briciolo di verità. Una verità,
ça va sans dire, terrifica e tenebrosa come lo squillo di un corno nel
cuore della foresta nera.
Un prigioniero di guerra inglese si
sveglia dopo centodue anni e si accorge di come il mondo sia molto cambiato in
peggio. Infatti la Seconda Guerra Mondiale è stata persa dall’Inghilterra che
nel 1945 è stata invasa dalla Germania hitleriana. Il giogo nazista
spadroneggia in Europa che nel frattempo è diventato un “immenso reich
millenario”. L’ex ufficiale di marina britannica, dopo essere guarito grazie
alle cure di uno strano ospedale, scopre di essere prigioniero di un nobile
pazzo e allucinato, il barone Von Hackelnberg che, nelle sue truculente notti
di luna piena, dà la caccia, in una foresta magica e spiritata, alla preda più
impensabile. Una trama talmente da film di fantascienza che pare davvero strano
come nessuno, dal 1952 ad oggi ci abbia ancora pensato (anche se la longa mano
di Hollywood, qualche anno dopo l’uscita del libro, lo aveva opzionato per una
trasposizione filmica).
Il richiamo del corno è un racconto
lungo, scritto in un inglese colloquiale e facilmente comprensibile, che viene
reso dal traduttore dell’edizione Adelphi Roberto Colajanni in un italiano cristallino,
il quale rende facile la lettura. Anche se, bisogna sgombrare subito il campo
da possibili fraintendimenti: il genere
del libro di Sarbon è, in maniera compatta, la più classica delle distopie,
ovvero “cosa sarebbe successo se…i nazisti avessero vinto la guerra”. Infatti,
proprio la scelta stilistica volta all’immediatezza, è un indice del fatto che
l’autore volesse scrivere un racconto che potesse suscitare un interesse verso un largo pubblico. Da non sottovalutare poi il fatto che Il richiamo del corno non è stato un libro di grande successo e l’unico exploit e in tema di vendite e in tema di
attenzione da parte della critica, lo ebbe quando, nell’ottobre del 1959
(quindi a sette anni di distanza dalla sua uscita) il volume viene ripubblicato
dall’editore Ballantine nella collana “Ballatine Chamber of Horrors”, vero e
proprio, come viene citato nella nota conclusiva di casa Adelphi a firma di
Matteo Codignola, “sacrario della narrativa underground, (…) dove una ragazza
nuda – e fucsia – fugge, in una selva blu, da un cavaliere bianco – in un
tascabile Sphere di qualche anno dopo una bionda di spalle, la carne bianca
segnata dal graffio rosso di una fiera, si aggrappa disperatamente a un paio di
calzoni prepotentemente maschili”.
Questo fattore non dev’essere
sottovalutato. Infatti il libro di Sarban “vende” se viene presentato, anche in
tema di packaging editoriale in una veste a metà strada tra la “fantascienza” e
una “sceneggiatura da film di serie b un po’ scollacciato”. Non che questo dato
debba per forza rappresentare una diminutio del valore del libro. Infatti il
racconto si inserisce, va detto in maniera molto personale e autonoma, in quel filone fantascientifico/distopico che, a giudicare dalle più recenti
tendenze sia nei fumetti sia nei film di matrice hollywoodiana, sta ritornando
in forte auge. Questo per dire che Il richiamo del corno letto oggi ha un
fascino straniante, come di un futuro abortito ma che, per qualche oscura
ragione, sentiamo particolarmente famigliare e, quasi in maniera inquietante ,anche affascinante.
Infatti, a proposito di “macrotendenze
dominanti nella narrativa/cinematografia internazionale” e nonostante una vita di
Wall che non da adito a “dirette ripercussioni biografiche”, un'altra caratteristica
che emerge con sempre maggiore nitidezza è il piacere, quasi ossessivo, con il
quale Sarban si sofferma a descrivere, ad esempio, i completi di pelle che le
“donne gatto”, ragazze ariane a cui è stato asportato chirurgicamente qualsiasi tipo di sembianza umana, indossano per rassomigliare ancora di più ad una
fiera. Anche i prigionieri del campo sono vestiti con pelli animali che
ricordano ora i daini ora gli uccelli, tutto prede del resto. Quindi il
feticismo per questi oggetti così costringenti, che si adattano perfettamente
alle curve del corpo, riempie le pagine del libro. Ma non finisce qui. Infatti,
proprio la natura sanguinaria della caccia, espone il narrato a frequenti
riferimenti a tagli, colpi di frusta e lacci che si stringono, con ovvie
ripercussioni sadiche che ne conseguono. Senza spingerci verso territori che
non ci competono e tentando di non essere troppo influenzati da semplicistiche
spiegazioni psicologiche, non pare sbagliato affermare che Sarban fosse
affascinato da un immaginario feticista/sadomaso.
Anche nelle magnifiche descrizioni del
“bosco incantato attraversato da due amanti”, in cui solo per un attimo la cupa
atmosfera viene sospesa da un flebile raggio di sole e di attesa, anche in
queste descrizione dicevo, c’è sempre una nota straniante, una piccola
descrizione che si sofferma su una parte del corpo o su un tessuto che lascia
stupiti.
Vagammo
per Hackelnberg come due innamorati che si sono ritrovati in una foresta
incantata. A ciascuno di noi l’immediato passato appariva remoto e irreale,
come un orrendo sortilegio che i raggi mattutini del sole avessero spezzato
via. Hans von Hackelnberg sembrava l’orco di una favola, e noi ci credevamo
solo a metà – solo quel tanto che bastava a rendere più eccitante la nostra
avventura. (…) ci sembrava di possedere dentro di noi tutto ciò che di vero e di
importante esisteva al mondo: noi, mentre vagavamo in quella mirabile e gaia
foresta estiva, eravamo il mondo.
Al netto di questo passaggio, realmente
di grande letteratura, emerge chiaro come Il richiamo del corno abbia davvero
le fattezze di una fiaba, con un protagonista/eroe, una fanciulla “pura”, un
orco e una foresta più o meno incantata e irta di ostacoli. Ma, a differenza
delle fiabe dei tempi antichi, qui non c’è una morale da trarre ma semplice
giovamento nella narrazione. Anche il corno tonante che il barone Von
Hackelnberg usa per radunare i suoi alla volta della caccia, è un chiaro
reperto di un evo sospeso, che si potrebbe definire quasi fantasy, senza che
però questo termine non gettasse subito il volume nell’inferno della
letteratura dozzinale (a cui non appartiene anche e soprattutto per un
passaggio come quello letto poc’anzi).
In una vita che non ha mai trovato di
alcun interesse nonostante avesse viaggiato quasi per tutto il mondo per la professione da diplomatico, Sarban/
John William Wall pensava che “la vera vita fosse nella scrittura” e per questo
costruiva foreste impenetrabile dove mostri e segreti si inseguivano senza
sosta.
Se è vero che “la vita è una foresta di simboli” per Sarban l’importante non è decifrarli, ma attraversare quel bosco come se si fosse in una fiaba anche se i tempi sono bui.
Mattia
Nesto
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