di Fioly Bocca
Giunti Editore
pagg. 156
euro 12,00
Il tema di questo delizioso quanto delicato romanzo di Fioly Bocca è l’assenza. Quella improvvisa, dolorosa e lacerante. L’assenza della persona cara, l’assenza della figura materna, l’assenza devastante della sicurezza della quotidianità. Un tutto pieno e un tutto vuoto che è quasi ossimorico, se pensiamo al titolo ben scelto dell’opera, che è anche la chiave di volta dell’intera trama, quando la stessa protagonista ne diventerà consapevole.
Ho le nocche rosse, a forza di tormentarle con i denti. Rimetto il tablet nella borsa, e mentre mi alzo in piedi mi rendo conto di avere i muscoli irrigiditi dalla tensione. Comincio a camminare e ripenso a quello che ho scritto, a quanto è lontano dalla verità. Ci sono giorni perfetti per essere felici: imparo che la disperazione si nutre di iperboli.
La maggior parte dei giorni, sembra invece dirci la Bocca in questo romanzo, è perfetta per non esserlo. E questo dipende quasi sempre da noi stessi, dalla rete che ci costruiamo attorno e in cui restiamo invischiati, inizialmente per proteggerci, infine per paura di cambiare. E tutto questo lo impariamo a nostre spese, quando uno dei pilastri della nostra vita crolla, lasciando il vuoto.
Se potesse telefonarmi il Futuro mi darebbe ragione, perché la mente non è un interruttore e ci vuole allenamento per abituarsi a un'assenza. Perché è difficile e rischioso stare sulla prua della nave esposta alle raffiche dei venti e alla forza incontrollabile delle onde del mare. La baia è sicura, invece: tutti possono vedere come conduci bene la tua vita, aspettando gli ospiti in veranda e preparando tisane e pasticcini.
Si concentra su temi molto difficili, la brava scrittrice, al suo esordio letterario. Il tema della malattia, del dolore, dell’incomprensione con l’altro, della rinuncia e della rinascita. In una catarsi quasi epica, ma egualmente tutta personale, la protagonista capirà che ognuno ha diritto alla propria strada, anche se intraprenderla comporta delle rinunce. Alcune imposte dal destino, altre, quelle apparentemente più facili, ma realmente formative, bisogna imparare a gestirle guardandosi dentro.
La vicenda si svolge in una Torino odierna, città magnifica ma appiattita e banalizzata, se non per brevi sprazzi, nel racconto di una vita monotona, inseguendo i cliché tipici di una topografia dedita all’editoria, dove il sogno di far parte di una realtà importante si scontra con la realtà della banalizzazione dei mestieri intellettuali in cui l’Italia è sempre più maestra. In città tutti i problemi vengono a galla, e la protagonista cerca soluzioni e rifugio nella natura amica, che sia un parco, una panchina, uno scorcio veloce o un paesaggio di montagna, la catarsi avviene solo in presenza di una figura amica di una madre natura che si sostituisce a quella fisica e accompagna la protagonista verso la felicità.
Il prima, il momento del dolore è fatto di finzioni. Non resta che fingere alla protagonista, raccontare alla madre malata una realtà edulcorata e finire per raccontare a se stessa una trama sbiadita di desideri ormai morti, sepolti dalla comodità del quotidiano delinearsi di parole, frasi e gesti, quasi da copione.
Forse perché occorre distanza per riconoscere gli errori, o forse perché svincolandoci dalla presenza corporea di una presenza tanto confortante come quella materna, il panteismo della spiritualità incorporea ci rende gli amori assoluti così intimi e giudicanti da non potercene più liberare, quasi introiettandone il pensiero e rendendoci così vittime giudicate da quel Super io scomodo, ostaggio costante e trappola dentro di noi. Ed ecco che il dopo diventa coraggioso e vitale, la protagonista rinasce dal suo dolore per andare incontro alla nuova se stessa.
In fondo il filo conduttore della rinascita post-traumatica è un tema molto caro a tanta letteratura, ma qui a colpire è la delicatezza dello stile, in un romanzo che si legge con facilità, seppur si digerisca con grande lentezza, facendo i conti con se stessi, con le proprie paure, i propri vissuti e i dolori personali. Perché ognuno di noi agogna alla favola della libertà, ma sono pochi quelli che riescono a indossare un paio di scarpette rosse per corrervi incontro.