Equatore (Equador)
di Miguel Sousa Tavares
Cavallo di ferro, 2005 (2003)
traduzione dal portoghese di Clelia Bettini
pp. 492
€ 18,50
Recentemente ho pensato alla terza e ultima puntata della trilogia dell’Ibis di Amitav Ghosh e mi è venuta la smania di leggere questo epilogo narrativo di cui è prevista l’uscita entro l’anno. Nell’attesa, per tenermi in allenamento con certi temi e atmosfere, dal colonialismo all’umidità di latitudini sperdute negli oceani, ho trovato questo romanzo dimenticato. Costituì l’esordio di un giornalista molto popolare in Portogallo, una sorta di Giorgio Bocca lusitano prestato alla letteratura. E fu roba da 220.000 copie. Azzardo pure un consiglio, visto che è il mese di agosto: non fatevi impressionare dalla mole, è adatto sotto l’ombrellone. Sarà perché si parla di isole.
Isole sperdute come Sao Tomé e Principe, colonia portoghese. È il 1905 quando un viveur di Lisbona dalle idee liberaleggianti e positiviste, Luis Bernardo Valença, viene nominato dal re di Portogallo governatore di questo arcipelago collocato nel golfo di Guinea, sulla linea dell’Equatore. Il suo compito è convincere i proprietari delle piantagioni ad adottare un comportamento diverso nei confronti dei lavoratori di colore, provenienti dall’Angola, in modo da confutare l’accusa di schiavismo fatta al Portogallo dall’Inghilterra. In effetti, la rivendicazione anglosassone ammantata di immortali principi si basa su specifici interessi economici. Le aziende portoghesi di Sao Tomé e Principe, potendo sfruttare una manodopera schiava, producono cacao in tempi inferiori alla media e lo immettono nel mercato mondiale a costi ridotti rispetto alle omologhe britanniche. Le quali, a loro volta, fanno lobbyng per spingere il governo di Londra a sospendere le importazioni di cacao portoghese in tutto l’impero.
Luis Bernardo capisce che mettersi a confutare l’accusa di schiavismo è impresa ardua, viste le condizioni di vita dei negri nelle piantagioni e anche perché l’Inghilterra si è tutelata, mandando un suo console a verificare come stanno le cose. L’autore apre una corposa parentesi quando ritiene di presentare i coniugi David e Ann Jameson. Si trovano scaraventati a Sao Tomé perché David ha visto interrompere la sua brillantissima carriera in India a causa della passione per il gioco. David Jameson ha rovinato tutto per soldi.
Non è cosa automatica maturare convinzioni, idee e atteggiamenti diversi. Spesso è necessario soffrire per arrivarci ed è qui il bello del romanzo. La storia di Luis Bernardo è quella di chi a un certo punto si trova di fronte a un dilemma etico: l’integrità personale vale di più dell’interesse del proprio paese? Sul confine labile tra essere se stessi e venire a patti con il mondo, Luis Bernardo balla pericolosamente assieme alla stupenda moglie del console inglese. Così, quella sua nobiltà di fondo, quel suo sentirsi investito di una missione che neppure ha cercato, quel suo alzare la testa per un sentimento di onore e di dovere vengono offuscati e sviliti da voci di adulterio messe in giro ad arte dai suoi detrattori.
“Equatore”, dunque, è un titolo simbolico, una linea d’ombra dove tutto è possibile: si può optare per il coraggio o la viltà, per l’amore o l’accomodamento, per la sincerità o la sottigliezza. Luis Bernardo incontra il suo equatore lungo il cammino dell’esistenza e sceglie. David Jameson è più perfetto, consapevole, nonostante il declassamento viene da una scuola di elite creata per governare l’India: un compito che, come diceva Kipling, «Dio aveva messo nelle mani dell’Inghilterra». Di David è ammirabile il sapersi adattare a ogni circostanza, l’abilità affilata e il suo soffrire in silenzio.
Ma mentre David è di passaggio, perché sa, o spera, che Sao Tomé è l’espiazione a un errore commesso in vista di un rientro nei ranghi della diplomazia inglese più prestigiosa, Luis Bernardo nel cambiare abitudini e continente, prima mette in gioco l’essenza di una nazione: vuol fare capire, o riscoprire, al Portogallo che non è in Africa solo come paese predatore. Poi, scegliendo appunto, mette in gioco se stesso. Ed è a questo livello che gli uomini possono cogliere la definitività di una strada imboccata, un “per sempre” che li rende perfino eroici.
Marco Caneschi