Che la penna possa essere usata come arma, che le parole possano essere a volte più incisive che la lama di un coltello, questo è un dato di fatto. Se così non fosse, non si spiegherebbe come mai ogni volta che un regime dittatoriale prende il potere, la prima cosa che fa è mettere in atto meccanismi di censura che gli permettano di controllare tutto ciò che viene stampato, su libri, riviste e quotidiani, nel Paese. Anche i regimi democratici, forse più subdolamente, tendono a fomentare quel fenomeno odioso che è l'autocensura. Ne è un esempio la nostra povera Italia: dopo il caso De Luca relativo al TAV Torino-Lione, quale altro scrittore oserà alzare la sua voce contro la faraonica opera ferroviaria?
Ma quanto scritto finora è vero in tempo di pace, ovvero in un momento in cui non entrano in gioco le armi, quelle vere. Di fatto, qual è la reale potenza delle lettere, quale la forza della ragione, in circostanze eccezionali come una guerra?
Credo che un buon campo di riflessione per cercare di dare una risposta a questa domanda possa essere la Spagna.
Nel XXXVII capitolo della I parte del Don Quijote, Miguel de Cervantes scrive le seguenti parole:
Siendo, pues, ainsí, que las armas requieren espíritu como las letras, veamos ahora cuál de los dos espíritus, el del letrado o el del guerrero, trabaja más.
Tutta la tensione del romanzo si gioca, per l'appunto, sul senso di disagio che sentiva Alonso Quijano, che passava le sue giornate a leggere avventure di nobili cavalieri del passato, nei confronti di un mondo ingiusto, in cui i prepotenti l'hanno sempre vinta sui deboli. Quindi decide di abbandonare las letras e imbracciare las armas, farsi cavaliere e passare all'azione diretta. Per farlo cambia anche nome, da Alonso Quijano a Don Quijote, e si dota di un scudiero materialista e illetterato, Sancho Panza. Sappiamo tutti che nella sua carriera di cavaliere andante, la letteratura ha nutrito senza soluzione di continuità la realtà che viveva Don Quijote. A dispetto del fatto che tutti lo consideriamo un pazzo, l'insegnamento del capolavoro cervantino risiede proprio nella capacità della letteratura di mutare la visione che abbiamo della realtà, di farcela vedere da un altro punto di vista, di modo che i mulini non siano semplici mulini, ma giganti devastatori.
In maniera speculare, la poesia, che va a colpire la nostra intimità più segreta, e quindi ci risulta difficile, ci indica un cammino: il poeta si trasforma in un faro che nei momenti più oscuri della storia dell'uomo può, anzi deve, essere una guida insostituibile.
Quando Miguel de Unamuno, nel paraninfo dell'Università di Salamanca, dice a chiare lettere al generale franchista Miguel Astray la famosa frase “vincerete, ma non convincerete”, rimarca esattamente lo scarto tra letras e armas, e indica un cammino: vincerete perché avete la forza, non convincerete perché non avete la ragione, l'intelligenza. La forza della ragione che soccombe alla ragione della forza. E in maniera quasi veggente, don Miguel aveva ben chiaro il rischio che si stava correndo durante la Guerra Civile Spagnola che, alla fine, vide la vittoria dei più forti fisicamente e la sconfitta di chi aveva dalla sua, non solo la ragione dei principi (libertà, democrazia, ecc.), ma anche quella del diritto, giacché quello di Francisco Franco fu un sollevamento contro una Repubblica democratica e contro un governo frutto di elezioni a suffragio universale.
Pochi mesi prima che Miguel de Unamuno pronunciasse il suo famoso discorso contro Astray, si compì quello che forse è l'assassinio simbolo dell'intero conflitto civile spagnolo e, con ogni probabilità, l'esecuzione emblematica della poesia da parte di un esercito che porrà le basi di un Stato fascista, disprezzante per quasi quarant'anni di qualsivoglia manifestazione culturale. Sto parlando della morte di Federico García Lorca, il poeta del Romancero gitano e del Llanto por la muerte di Ignacio Sánchez Mejías. García Lorca si trasforma immediatamente in un simbolo per l'antifascismo internazionale che in quegli anni combatteva la prima tappa di una guerra che sarebbe finita solo nel 1945. Simbolo di lotta e simbolo del disprezzo da parte di Franco e dei suoi alleati nei confronti di tutto ciò che il poeta granadino rappresentava.
Per questa ragione moltissimi scrittori, spagnoli e non, che erano fisicamente presenti in Spagna, a lottare per la Repubblica, si spesero in omaggi e dedicarono a García Lorca le loro opere. La memoria del crimine non andava dimentica. Tra di essi, Antonio Machado, il grande poeta spagnolo che con i suoi versi aveva illuminato i campi della Castiglia all'inizio del XX secolo. Nonostante l'età (nel 1936 aveva già 61 anni), Machado si mette immediatamente a disposizione del Governo repubblicano quando scoppia la guerra. Ne segue le vicissitudini: da Madrid, dove è uno degli ultimi ad andarsene perché dentro di lui si sentiva un miliciano más, a Valencia e poi a Barcellona, quando, alla fine di gennaio del 1939, intraprende la via dell'esilio. E di esilio morirà il 22 febbraio del 1939, solo, stanco, invecchiato, a Coillure, a pochi chilometri dalla frontiera tra Francia e Spagna. Per ovvie ragioni, Machado non ha combattuto con il fucile, ma con la penna, nella retroguardia. E questo nonostante fosse consapevole della sua impotenza, di non poter fare più di tanto. Sono oltremodo significativi i versi che Machado dedica al generale Líster nel 1938:
Si mi pluma valiera tu pistola: la disperazione investe il poeta che è consapevole della sua impotenza di fronte alla forza delle armi del nemico. Cosa possono i versi di un sonetto contro gli aerei italiani che bombardano Barcellona? Nulla, possono. E non è retorica, né nichilismo. Ma alla disperazione fa da contraltare la speranza che Machado nutre nei confronti di chi è fisicamente al fronte, sostenuto dalla forza della ragione, cimentata questa forza dalle parole dello stesso poeta. Eccolo il cammino, la strada per la salvezza che ci indica la poesia, non solo quella di Machado, ma anche quella di García Lorca prima di lui, di Neruda, di César Vallejo e di Miguel Hernández.
A Líster, Jefe en los ejércitos del Ebro
Tu carta -oh noble corazón en vela,
Español indomable, puño fuerte-,
Tu carta, heroico Líser, me consuela,
De esta, que pesa sobre mí, carne de muerte.
Fragores en tu carta me han llegado
De lucha santa sobre el campo ibero;
También mi corazón ha despertado
Entre olores de pólvora y romero.
Donde anuncia marina caracola
que llega el Ebro, y en la peña fría
donde brota esa rúbrica española,
de monte a mar, esta palabra mía:
“Si mi pluma valiera tu pistola
de capitán, contento moriría”
Si mi pluma valiera tu pistola: la disperazione investe il poeta che è consapevole della sua impotenza di fronte alla forza delle armi del nemico. Cosa possono i versi di un sonetto contro gli aerei italiani che bombardano Barcellona? Nulla, possono. E non è retorica, né nichilismo. Ma alla disperazione fa da contraltare la speranza che Machado nutre nei confronti di chi è fisicamente al fronte, sostenuto dalla forza della ragione, cimentata questa forza dalle parole dello stesso poeta. Eccolo il cammino, la strada per la salvezza che ci indica la poesia, non solo quella di Machado, ma anche quella di García Lorca prima di lui, di Neruda, di César Vallejo e di Miguel Hernández.
Già, Miguel Hernández. Se Machado muore di esilio, perché è nella solitudine della sconfitta e dell'esclusione dal suo Paese che il corpo del poeta si spegne, ma non si tacciono le sue parole, Miguel Hernández muore di insilio, ovvero di opposizione, e come lui migliaia di altri spagnoli repubblicani che non poterono o non vollero varcare la frontiera con la Francia. Hernández, in realtà, la varcò una frontiera, ma era quella sbagliata: andò in Portogallo, con l'idea di salpare da Lisbona verso l'America. Ma la polizia salazarista lo arrestò e lo consegnò alle autorità franchiste che lo rinchiusero inizialmente nel carcere di Palencia e, poi, in quello di Ocaña (Toledo). Dalla Castiglia fu trasferito sul Mediterraneo, nel Riformatorio per Adulti di Alicante. Qui, il poeta Miguel Hernández si ammalò di bronchite e tifo che, sommati alla tubercolosi e alle cure che non gli vennero mai somministrate, lo portarono alla morte il 28 marzo 1942 in condizioni infraumane. Aveva 31 anni.
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