Al romanzo di Edoardo Nesi, ragazzi, e un manca nulla. E gli va detto… c’ha perfino la ’olonna sonora. Mi garba partire così, toscaneggiando, là dove trovo atmosfera, sudore, personaggi, storie perfettamente intrecciate. Non uso questo termine, intrecciate, a caso. Perché se tutto ruota attorno a un capannone dove verrà impiantata un’industria tessile da fare invidia alla Toscana, ma che dico, all’Italia, ma che dico, alle Fiandre e alla via della seta, la questione è riconducibile a trama e ordito.
Sono tanti i motivi per amare questo romanzo: l’inizio, di una forza cinematografica come in certi autori statunitensi. Un incipit ritagliato su un’Italietta da spiaggia che ammirava i primi dirigibili pubblicitari che sorvolavano le riviere. E subito sei scaraventato in un’epoca e in un ambito familiare. C’è un bordellotto, versione toscana, o almeno aretina, di uno a metà tra bullo e vitellone, che ha sposato una di quelle che ti giri per strada quando passa e si chiama Cesare Vezzosi. Ovviamente manda questa moglie con il figlio piccolo al mare perché ha gli affari, il tennis e una «ganza storica» da castigare.
In spiaggia c’è un atmosfera da Apocalipse Now, solo che invece degli elicotteri che sganciano il napalm arriva un velivolo che lancia piccole mongolfiere che scatenano i bambini. Il figlio di Cesare Vezzosi – si chiama Vittorio e la strafica che lo ha partorito Arianna – viene bloccato proprio dalla madre che ha paura di perderlo nella calca e, non si sa mai, vederlo travolgere. Ma c’è un momento per tutto, nel destino di tutti: finita la ressa, è rimasta l’ultima mongolfierina sull’arenile, trascurata, salvatasi per miracoli da un mucchio tentacolare di mani in miniatura. Vittorio può raccoglierla e dimenticare il pianto di pochi minuti prima. L’estate è davvero cominciata.
In estate si sogna, non c’è niente da fare, anche se poi rischi di odiarla come canta Bruno Martino, questa stagione: a forza di sognare, Ivo Barrocciai imbarca il Vezzosi in quello che potrebbe trasformarsi in un incubo, ovvero gli chiede di realizzare una fabbrica che in certi capitoli pare ciò che il povero ufficiale Drogo vedeva dalla fortezza Bastiani. Il nulla che avanza. Anni e anni che, per i più svariati motivi, che vi lascio scoprire leggendo il romanzo, passano senza che il progetto abbia una svolta, un avanzamento significativo. Pensare, il Vezzosi ha fatto ricorso a un fior di lavoratore, Pasquale Citarella, salito in Toscana con la famiglia da Ariano Irpino.
Puoi amare questo romanzo perché denso di anni Settanta. Ma denso perché Nesi è straordinario nel ripercorrerne la storia estetica attraverso il tessuto. Immagino che in questo sia stato avvantaggiato dalla sua vita precedente di imprenditore pratese che con la filatura ci sapeva fare. Ma, se vogliamo, questo può essere perfino un elemento di sofferenza, d’altronde basta leggere “Storia della mia gente” per capire come un altro tessuto, quello imprenditoriale, abbia visto scoppiare in un bolla il sogno di decenni. Edoardo Nesi fa di questo libro un campionario di stoffe, di stili, di look ma non c’è un momento in cui questi riferimenti appaiano fuori luogo. Dove c’è da evidenziare la fatica si fa ricorso a qualche vestito sfuggito, dove c’è da mettere in risalto l’angoscia di un giovane alle prese con la prima cotta a un paio di Levi’s 501 sdruciti. Ma è tutto così complementare. Veste bene.
Io da toscano che dista un 40 minuti da casello a casello dalla Prato di Nesi, figlio di un altro distretto erede di mezzadri arricchiti, riconosco la forza narrativa del romanzo nei vizi di due imprenditori caciaroni, il Vezzosi e il Barrocciai. Il primo ha un soprannome che è tutto un programma: il Bestia. Ma sarà alla fine che ne scopriremo il perché e garantisco che vale la pena perché in due pagine sale una tensione sorda come in quei dialoghi fra Marathe e Steeply di “Infinite Jest”, tanto per restare su un terreno familiare a Nesi. Il Barrocciai viaggia per il mondo con le sue idee su come rivestirlo. Sfida perfino i tirolesi sul loden. E a un certo punto sfida il Vezzosi su un terreno pericolosissimo. Arianna e suoi pompini.
Fra questa coppia di toscani a cui la vita pare un’estate infinita durante la quale si può perfino trascurare il sogno principale, la mega-fabbrica da costruire, perché tanto c’è tempo e anche i sogni a latere meritano quel po’ di attenzione, va spesa qualche parola su Pasquale Citarella. Dall’Irpinia profonda, il Vezzosi lo chiama marrocchino, con due erre come facciamo tra Val di Chiana, ai confini umbro-pontifici, e Val di Nievole, pistoiese sudoccidentale, quando vogliamo sottolineare un concetto. A giudizio del Bestia è pure incapace di procurarsi «le fiche perché, da buon terrone, preferisce la donna pelosa». La prima volta che Pasquale porta a casa soldi veri, li butta sul letto come un trofeo da fare ammirare alla moglie. Maria. Ecco: Maria. L’infaticabile Pasquale, a differenza degli altri protagonisti, non riesce a darsi una risposta su quale sia la sua estate infinita, però sa con chi vuole viverla: con sua moglie e i figli Dino e Antonio. Sarà un caso ma la prima immagine di Maria che Nesi lascia a Pasquale è fatta di forme floride e grandi occhi scuri. Sì, tipo Claudia Cardinale.
Puoi amare questo romanzo per tutto quello che c’è in mezzo tra quelle mongolfierine anelate da Vittorio e il finale. Ma puoi amarlo soltanto per il finale: stratosferico. Dove si ritrovano i sognatori di ogni parte d’Italia nella Versilia lussuosa e alla Capannina, tra Ferrari e champagne. I sognatori che hanno visto le loro botteghe, i loro scantinati, i loro laboratori nel garage trasformarsi miracolosamente in capannoni da 10.000 metri quadrati da dove esce maglieria, oro, scarpe, cappelli, mobili, elettrodomestici, cuoio, alta moda. Eppure, in quella serata che pare infinita, dove convergono le auto di lusso e i secchielli con il ghiaccio per mantenere a temperatura le bollicine francesi, dalle vetture se ne scendono persone che neppure sanno che l’altro giorno è caduto un governo. Perché ambiscono al loro sogno e a forza di alimentarlo non hanno modo di pensare alle ferie, figuriamoci agli inquilini dei palazzi romani.
Solo che la serata si apre, guarda caso, con Bruno Martino che canta odio l’estate e finisce con “I will survive” di Gloria Gaynor. Prima cantata come un lento, con sofferenza, poi nella versione ritmata, quella rabbiosa come uno schiaffo. Arianna, Vittorio, Ivo. Anche le serate scintillanti hanno una fine alle tre del mattino. Anche l’estate arriva agli sgoccioli. Anche al sogno più bello segue un risveglio. E se in un primo momento At first I was afraid, I was petrified, resti impaurito, pietrificato, la sfida vera è proprio lì: I will survive. Sopravvivere.
Marco Caneschi
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