Adam Thirlwell e Gloria Ghioni a Milano - foto di ©CriticaLetteraria |
21 settembre 2015
Hotel Manin, h. 17
Sono le 17 in punto quando Adam Thirlwell scende nella hall dell'hotel Manin: completo elegante, cravatta e un sorriso al tempo stesso timido, divertito e curioso. D'altra parte, lo accolgo con una stretta di mano e un sorriso molto simile: qualche impaccio nell'inglese, ma la stretta di mano salda rinfranca qualsiasi dubbio. E partiamo in un viaggio letterario e soggettivo in Lurid & Cute (in Italia pubblicato da Guanda col titolo di Tenero & violento, recensito pochi giorni fa). E per un'ora non esiste altro.
Vorrei partire dall'ambivalenza del titolo: ti sei accorto che la traduzione italiana ribalta i due aggettivi? Pensi che questo abbia una ricaduta sul gusto del lettore oppure i due aggettivi sono tanto ambivalenti da prestarsi docilmente a un ribaltamento?
Scelgo sempre titoli molto letterali: Lurid & Cute mi è piaciuto molto perché le parole rappresentano i temi chiave che tratto nel romanzo: sono due termini che non dovrebbero andare insieme, anche se in realtà sono correlati perché fanno riferimento a difetti e a un'assenza di sensazioni, a un'immaturità che si riflette perfettamente nel mio narratore. La traduzione italiana con i due aggettivi invertiti risponde forse a questioni di ritmo; so che la stessa cosa è successa anche in Francia, dove Lurid & Cute è stato traslato nel corrispettivo di "dolce e abietto". Non so se ci sia una differenza nella reazione del lettore: forse il titolo che termina con "violento" dà una percezione più sinistra al tutto, ma lascio che siano i lettori a stabilirlo.
Perché il protagonista resta anonimo, proprio come l'ambientazione è una grande città indefinita?
In effetti, le due cose, per quanto diverse, sono correlate. Per questo libro, mi sono ispirato alla Recherche, a cominciare, appunto, dalla scelta di un protagonista anonimo, che rischia di confondersi con il narratore; inoltre, anche il mio è un narratore che cerca di scrivere un romanzo. In ogni caso, la sovrapposizione tra narratore e autore è solo parziale: puoi sempre dire che è stato l'"altro", il personaggio, ad agire, e quindi smarcarti da un qualsiasi autobiografismo. In più, volevo giocare con quello con cui un lettore si può identificare o meno. Per questo l'anonimato crea confusione tra autore e narratore, ma anche tra lettore e narratore.
Per quanto riguarda l'ambientazione, la scelta di una grande città, come potrebbe essere Milano o Londra, è dovuta al fatto che oggi le grandi città sono molto simili. Volevo esplorare la sorta di nuvola in cui noi ci troviamo a vivere e l'aspetto realistico e irrelistico della nostra quotidianità.
A proposito delle fonti, tu citavi Proust. Livia Manera Sambuy ti ha accostato ad Ellis e a McInerney: cosa ne pensi? Quali sono altrimenti i tuoi modelli letterali?
Beh, non ho mai letto McInerney, quindi non posso aver tratto ispirazione da lui. Conosco Ellis e capisco cosa intendesse la giornalista, ma in realtà ci siamo interessati in modo diverso alla superficialità moderna: Ellis tratta il tutto in modo più violento, i suoi personaggi sono molto più spietati e più ricchi,... Io volevo qualcosa di più soft: borghese anziché alto-borghese, periferico al posto di cittadino. Una cosa di Ellis che sicuramente mi affascina molto sono i dialoghi, così spogli e piatti! Amo molto questo stile perché ti fa capire che sotto la superficie apparentemente perfetta c'è qualcosa di più serio che si nasconde e sta a te capirlo.
I modelli di Lurid & Cute sono piuttosto Proust e Kafka, da cui ho preso addirittura intere frasi. Kafka si specchia nel tono e nell'ambientazione onirica (pensiamo a Il processo): viene spesso il dubbio che il narratore stia sognando e che potrebbe svegliarsi. Quel che mi interessa è il modo di indagare il paradosso, che c'è molto in Kafka. In una lettera che riprendo da Kafka, il narratore afferma: non capirai mai quanto è terribile avere avuto una bellissima infanzia. Questa sembra un'affermazione frivola, ma in realtà è serissima: è proprio la tenerezza ricevuta ad aver rovinato i personaggi fin dall'inizio. Mi interessava replicare questa commedia rovesciata, che sconfigge il paradosso.
Bene. Dunque è tempo di una piccola provocazione: all'interno del romanzo scrivi che la malattia del nostro tempo è la nostalgia; qualche pagina dopo, replichi che è il vizio alla confessione. La somma della nostalgia e della confessione genera l'autofiction?
Mi piace molto questa domanda! (ride) In effetti, il narratore lo fa molto spesso, prima dice una cosa e poi si contraddice. C'è però un legame tra questa confessione e la nostalgia: il fatto che viviamo in un mondo digitalizzato e possiamo tornare indietro a ripercorrere tutta la nostra infanzia sconfigge la nostalgia. Tutto ciò che sentiamo in questi anni è correlato al desiderio di tornare indietro, di preservare i ricordi. E la confessione è strettamente legata a questo perché si ha il desiderio di far eternare qualcosa attraverso il racconto, o postando un momento su Instagram, come una sorta di faraone moderno che costruisce le piramidi per far sopravvivere il ricordo di se stesso.
Per quel che riguarda l'autofiction, entrambi questi tentativi (della nostalgia e della confessione) sembrano farsi seri in un genere letterario, ma non lo sono: la confessione riportata nell'autofiction ad esempio è sempre troppo dolce, indulgente e si cerca sempre l'assoluzione. Proprio per questo sono stato attirato dal titolo Lurid & Cute, per far progredire il romanzo utilizzando toni che tradizionalmente non sono accettabili. Questi modi di scrivere, queste confessioni, riportano emozioni sbilanciate: si condividono le proprie cose [di cui molte intime, ndr] con perfetti sconosciuti come i lettori. Secondo me bisogna tenere conto anche nella narrativa della fenomenologia digitale, non scrivendo semplicemente "il personaggio va su Instagram", ma analizzando come cambiano i rapporti con questi nuovi strumenti.
A proposito del mondo digitale, nel romanzo non sei affatto morbido nel giudicare la freddezza dei social network e delle e-mail. Nella vita reale, credi che lo scrittore dovrebbe essere in rete?
Ho fatto una breve ricerca e non ti ho trovato su nessun social network... Quindi mi chiedevo: quanto sei disposto a condividere di te con i lettori?
Attualmente sono totalmente inaccessibile per i miei lettori: non ho neanche un account social! Sicuramente è per pigrizia: i social mi interessano e mi affascinano, ma non mi ci iscrivo. In parte, mi piacerebbe perché ho sempre patito un po' la sindrome del "lettore assente": il mio sogno è quello di un romanzo da leggere a un lettore, poi passare avanti e leggerlo al successivo, e così via. Sui social ci sarebbe questa interazione, ma sono ancora reticente, perché non ho capito bene come potrei fermarmi, creando una distinzione tra ciò che scrivo lì e il romanzo. E poi ritengo - forse sono un po' antiquato in questo - che il romanzo dovrebbe esistere di per sé, come un'entità separata da chi lo scrive, come un genere totalmente libero, una sorta di realtà alternativa.
Ecco, restiamo sulla capacità del romanzo di portare in una realtà alternativa. Di recente, parlando con Ann-Marie MacDonald, è emerso che lei scrive per far esondare una verità che sente il bisogno di condividere. Nel tuo romanzo, invece, per il narratore verità e felicità sono inversamente proporzionali. E tu cosa ne pensi da autore?
Facce felici da libro appena ricevuto. |
Sì, nel romanzo a un certo punto il narratore ammette che, se deve scegliere tra felicità e verità, preferisce la prima. Quindi il narratore si impegna per capire quanto sia morale cercare di nascondere determinate cose: secondo la sua filosofia, se una cosa fa male ma l'altra persona non lo sa, allora questa cosa non esiste. Io non necessariamente sono d'accordo con lui, ma lo capisco. Il narratore si chiede: quale verità si produce con la scrittura? Rispetto ad Ann-Marie, io lavoro diversamente: prima di scrivere, non so bene cosa accadrà, ma lascio che sia la scrittura a spiegarmi. Il romanzo, una volta consegnato alla stampa, diventa un prodotto fermo e statico, quando in realtà l'arte del romanzo consiste nel replicare nel lettore che legge il processo di scrittura che ha portato alla stesura del romanzo. Lo vedo più come un forma mobile, perché leggendo ognuno ripercorre il percorso dello scrittore. Ecco perché "non si può insegnare nulla, bisogna impararlo da sé": il romanzo non si può insegnare, bisogna fare esperienza del romanzo da soli, leggendolo. La stessa cosa vale anche per il narratore, che scopre che non bastano la sua formazione, la sua cultura, e che anzi la conoscenza può essere pericolosa; bisogna fare esperienza delle cose per poi impararle. L'equilibrio tra verità e fiction è molto precario: una certa parte di verità esiste solo attraverso la fiction; è piuttosto datato e indice di una mentalità obsoleta pensare che la verità sia ciò che è successo e la fiction ciò che non è successo.
Parlavi del processo della scrittura: ho amato moltissimo le similitudini che hai utilizzato. Sono nate autonomamente durante la stesura o se sono state aggiunte in fase di revisione?
Trovo sempre difficile ricordarmi come scrivo un romanzo! In questo caso, le similitudini erano già lì durante scrittura, perché mi piaceva che il narratore inserisse questi iati tra l'oggetto/l'evento e il termine di paragone. Le similitudini aggiungono un'atmosfera diversa da quella del romanzo, perché i termini di paragone sono tratti da aspetti totalmente diversi del mondo [e qui scatta spesso l'ironia del romanzo, ndr]. Poi abbiamo il narratore, che usa frasi lunghe e circonvolute, perché poi torna indietro, riprende da un punto diverso da quello di partenza...
Nonostante questo stile logorroico da monologo interiore, all'interno del romanzo il narratore scopre l'importanza dei limiti e delle regole. Da scrittore, esistono limiti nel descrivere le scene di sesso o credi che sia semplicemente una forma di dialogo alternativa tra i personaggi?
Non penso che dovrebbe esserci qualsiasi limite. Ma è anche non è che scrivere dettagli porti a fare buona letteratura, non è il caso di esagerare o si finisce nella pornografia gratuita, ma il sesso non è ancora stato esplorato a sufficienza in letteratura, per quanto ne siamo circondati. Il sesso che vediamo nelle immagini pornografiche, nelle pubblicità non è quello reale, c'è qualcosa che va oltre e che la letteratura può approfondire. Mi ha fatto ridere che il mio terapeuta, dopo aver letto il romanzo ha commentato: "Mi sono meravigliato di quanto ti sei spinto oltre!". Io non pensavo di essere andato così in là, anzi! Anche questa relatività nel sentire fin dove possiamo spingerci mi affascina. Secondo me, dipende da come viene descritta la scena, se la presenza del sesso si possa giustificare o meno ai fini della trama. In Lurid & Cute non indugio nei dettagli fisici; mi interessava descrivere la reazione del narratore, che è piuttosto disgustato dalle situazioni che vive. Qui c'è l'essenza del romanzo: i miei personaggi non sono mai liberi tanto quanto pensano o vorrebbero; sono dei libertini amatoriali, troppo carini e ben educati per superare questo confine. Addirittura il narratore si sente obbligato a descrivere queste scene ma lo fa di malavoglia.
Per finire ci vuoi raccontare la difficoltà maggiore che hai trovato nella scrittura di Lurid & Cute?
Ho trovato complesso raccontare la violenza: mi sono chiesto molte volte quali fossero i limiti ed è stata la cosa più difficile da decidere. Alla fine, dopo alcuni tentativi, ho risolto parlandone con toni piatti e impersonali, con termini ordinari, come se fosse una conversazione in un bar.