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L’irriducibile resistenza della vittima: "La chiave dell'ascensore" e "L'ora grigia" di Ágota Kristóf

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La chiave dell'ascensore e L'ora grigia
di Ágota Kristóf
Einaudi, 1999

Traduzione italiana di Elisabetta Rasy

pp. 51
€ 8

L’amore è anche volontà di possedere l’altro. Quando questo istinto va fuori controllo gli esiti sono nefasti, perché un essere umano non si riduce mai ad un solo ruolo, sarà sempre anche altro rispetto alla parte che riveste in un determinato rapporto sociale (la coppia, ad esempio) e quindi non potrà mai esser totalmente dominato dall’altro.
In questi due brevi testi teatrali, ÁgotaKristóf riflette sulla natura ambigua delle relazioni e sulla contraddittorietà dei desideri dando voce, soprattutto nel primo lavoro, a chi subisce l’oppressione. A tal proposito la curatrice del libro Elisabetta Rasy sostiene, nella sua Introduzione,
che in entrambe le pièces è messo in scena un sacrificio: 
Alle vittime non resta che una chance, nel claustrofobico spazio che sono condannate ad abitare: far sapere che c’è un’altra versione dei fatti”.
L’urlo che erompe a sipario ancora chiuso, proprio all’inizio de La chiave dell’ascensore, ci mette subito in guardia: sotto la superficie della scena che ci si apre dinnanzi (una Donna che attende l’arrivo del Marito nella loro casa) c’è qualcosa di invisibile ma minaccioso; la favola nasconde una realtà ben più prosaica. Anche dal tono pacato della protagonista, del resto, emerge di tanto in tanto la sua vera condizione, che l’ha resa folle: è segregata in casa dal consorte, il solo ad avere la chiave dell’unico ascensore che conduce fuori dall’abitazione isolata e immersa in un bosco lontano dalla città.

Se dovessimo diagnosticare una patologia a questa Donna, propenderemmo per il disturbo dissociativo della personalità, giacché almeno due anime convivono in lei, scontrandosi: da una parte c’è il desiderio di compiacere il marito, di esser una brava moglie (e il rammarico di non esserlo abbastanza, tipico di chi è succube anche psicologicamente), dall’altra cova il sentimento, più o meno consapevole, della propria condizione di reclusa e la conseguente volontà d’esser libera, espressa con la brama per la foresta che circonda la casa, luogo dove ci si può perdere abbandonandosi a ciò che ci è estraneo, all’incontro con l’Altro (incarnato da un Guardiacaccia). Questa passione, combattuta dal Marito in quanto minaccia alla coesione autosufficiente della coppia e rimossa dalla Donna nell’apparente accettazione del volere del coniuge (che, stando alle parole della protagonista, agirebbe per il bene di lei) torna in una forma più violenta provocandole scatti di follia.

Il Marito, nel suo delirio, cerca di eliminare ogni istanza della moglie che non sia rivolta al loro amore, arrivando fino alla mutilazione fisica: la priva delle gambe (costringendola su una sedia a rotelle, così non può uscire dal loro nido), dell’udito (non potrà più sentire i richiami del mondo esterno) e degli occhi, che rappresentano sia il mezzo per osservare ciò che la circonda sia quello per esprimere le proprie emozioni, rivelando magari la sua contrarietà nei confronti dei piani del partner.
Mio marito trova che sono più bella così. Dice che adesso i miei occhi conservano sempre la loro espressione dolce e sognante. Mentre prima gli capitava talvolta di scoprire nel mio sguardo un piccolo lampo di ostilità o addirittura di odio.
Ma è una lotta che l’oppressore non può vincere, sembra dirci Kristóf, almeno sul piano dell’assoggettamento mentale: il desiderio di libertà è insopprimibile; la Donna, piegata, resa folle, scissa, conserva comunque la volontà di essere un individuo e non cede all’assimilazione. Potranno toglierle la vita, ma non si farà strappare la voce per gridare al mondo la sua condizione. Nel teatro, luogo dell’incontro per eccellenza essendo fondato sul rapporto diretto tra attori e pubblico, l’autrice di origini ungheresi trova il mezzo ideale per esprimere il suo messaggio: la speranza è nella parola, nella comunicazione con gli altri.

Più criptico e di più difficile lettura si presenta il secondo testo, L’ora grigia. In una stanza anonima una prostituta incontra un suo vecchio cliente; sembra instaurarsi subito il classico rapporto tra i due: lui paga e quindi pretende da lei cieca obbedienza. Ma più si va avanti con le scene più qualcosa non torna: innanzitutto i due non fanno sesso, ma parlano, litigano, chiacchierano; il “servizio” che il cliente richiede alla prostituta non è l’appagamento sessuale, ma la possibilità di evadere dalla realtà; “Inventa qualcosa!”, “Sogna!” la esorta l’uomo, pretendendo la possibilità di immaginare un altrove migliore che li accolga entrambi come una coppia felice. Pagare, in questo caso, garantisce che le cose vadano esattamente come si vuole, che si possa essere padroni di se stessi e del mondo ipotetico che si è creato come, par di capire, non può succedere al di fuori di quelle quattro mura.

Perché il cliente ha bisogno della prostituta per le sue fantasie? Forse perché tutti hanno bisogno dell’altro per esser riconosciuti, o forse perché si illude così di inverare il proverbio africano per il quale “Se si sogna da soli, è solo un sogno. Se si sogna insieme, è la realtà che comincia”.
Ma è un gioco che non regge, perché è falsato in partenza: non basta essere i due perché i sogni siano davvero condivisi; nella situazione messa in scena ne L’ora grigia c’è una persona che impone all’altra i suoi sogni privati. La prostituta è comunque esclusa, non ha modo di esprimere i suoi desideri; l’idillio che l’uomo si inventa, la loro ipotetica convivenza normale, è un’illusione perché lei a differenza sua non ha scelto quel sogno. Se ne La chiave dell’ascensore c’era la violenza a dettare esplicitamente il rapporto di forza, qui il denaro separa ugualmente i due personaggi distinguendo chi comanda da chi subisce. A ben vedere, simulare un rapporto paritario occultando perfino a se stessi la realtà dello sfruttamento, è meschino quanto il comportamento del Marito della prima pièce, e forse ancora più ipocrita: peggio di uno sfruttatore c’è solo chi ti sfrutta fingendo che non sia così.

Dal raffronto tra i due testi emergono similitudini e differenze interessanti. Come la Donna de La chiave dell’ascensore si ribellava alla sottomissione, la prostituta, quasi contro i suoi stessi sforzi, non riesce a ridursi ad uno strumento passivo dei desideri altrui, nei quali innesta parte di sé, delle sue paure, delle sue voglie, della sua vita; come il Marito, il cliente non sa accogliere l’alterità, che viene rifiutata in quanto sfugge al proprio controllo. Alla lunga, dunque, il carattere fittizio del sogno si rivela anche agli occhi di quest’ultimo, che sprofonda così nella realtà: lui non è l’uomo di cui fantasticava, ma solo un ladro, ed è solo coi soldi che può ottenere ciò che vuole; pagata la prostituta, la deruba e torna alla sua vergognosa solitudine. Per quanto disonorevole, questa fuga riscatta però almeno in parte il personaggio, introducendo un’importante diversità rispetto al suo corrispettivo de La chiave dell’ascensore: a differenza del Marito, di fronte alla sconfitta non sceglie la violenza come estremo tentativo di difesa delle sue illusioni, ma si arrende sconsolato, acquistando la dignità del perdente messo di fronte alla sua condizione.

Ambiguo, come tutto il testo, è il finale: il Musicista compie la volontà della prostituta o la consacra definitivamente nel suo ruolo di vittima?

Nicola Campostori