Inchiostro su carta.
Carlo Levi.
Si vanta tanto la letteratura straniera sottovalutando sempre
quella nazionale. Inizialmente, scelsi di leggere questo romanzo “nostrano” per
colmare le mie lacune riguardanti la cosiddetta letteratura “contemporanea”
tanto trascurata sui banchi di scuola. In seguito, questo romanzo si dimostrò
una vera e propria rivelazione narrativa. In più, l’accostamento Dickens-Levi
non è così impensabile. Entrambi gli autori, sebbene di epoche diverse e con
intenti diversi, riescono a tratteggiare e ad abbozzare brillantemente la società
e la realtà alla quale appartengono. La medaglia al merito va però al nostro
Levi, in quanto riesce a rappresentare perfettamente una realtà che gli è
estranea dalla nascita.
La lettura di questo romanzo la definirei “a sensazioni”. Mi
spiego. Al di là del contesto storico e politico che Levi vive in prima persona
e descrive, ciò che mi ha profondamente attratta è stato l’affresco della
società rurale e retrograda che lo circonda. Una società apparentemente lontana
da quella attuale, eppure molto vicina a situazioni tuttora esistenti in
Italia. Levi è vicino ai contadini, persone oneste e genuine dalle credenze
magiche e sospettose. Persone che non hanno Stato e che vedono ingenuamente nei
briganti delle divinità da rispettare per ricevere protezione. Gente che,
nonostante tutto, vede al di là dell’ignoranza che le viene additata:
“Per la gente di Lucania,
Roma non è nulla: è la capitale dei signori, il centro di uno
Stato straniero e malefico.”
Il punto forte del romanzo sono le caricature. Carlo Levi,
sulla scia della più radicata tradizione italiana, dà un’immagine vivida e
ludica delle persone che lo circondano. Sono proprio quelle descrizioni così
caratteristiche a travolgere il lettore e a farlo sorridere nonostante l’amarezza
che traspare dalla realtà lucana. Levi dipinge i sette vizi capitali della
locale borghesia che contrastano con l’aspetto scarno e giallognolo della
povera gente. Così il protagonista si divincola, tra sana magia e malsana
disonestà distorta, accontentando tutti i locali e divertendosi a fare il
lucano in trasferta.
La sua narrativa ricorda i racconti assegnati alle scuole elementari, quelli da leggere per dieci volte
per migliorare la lettura e la dizione. Tuttavia non si vuole accusare l’autore
di superficialità, al contrario. Levi è un Dickens all'italiana. Rappresenta le persone che lo circondano con un misto di satira e serietà per lasciar passare direttamente e indirettamente un messaggio.
Difatti, oltre all'essere rapiti dalla narrativa di Levi, si è altrettanto rapiti
da quanti punti in comune ci siano tra la realtà di ieri e di oggi del nostro
Paese. In particolare, c’è un passaggio interessante che potrebbe far sospirare
molti neolaureati come me:
“L’Italia
è il paese dei diplomi, delle lauree, della cultura ridotta soltanto al
procacciamento e alla spasmodica difesa dell’impiego”
Un’Italia
a noi ben nota, quella ritratta in queste righe. Allora, alla fine della
lettura, chiedo ai lettori lucani se riconoscono la Basilicata
selvaggia ritratta da Carlo Levi. Lo chiedo esplicitamente perché da italiana e
meridionale quale sono, ho ritrovato delle caratteristiche ancora esistenti. Non
parlo solo del ben noto slogan “Roma ladrona”, della malasanità o dell’Italia
della disoccupazione. Parlo dell’Italia fatta di povera gente che si rimbocca
le maniche, che suda, si sacrifica e invecchia prima del tempo. Le pratiche
magiche descritte dalla donna delle pulizie di Levi, la “strega” ma piacente
Giulia, mi hanno riportato indietro nel tempo, quando mia nonna mi raccontava
delle leggende del suo piccolo paesino meridionale. I sacrifici dei contadini e la consunzione
fisica che li caratterizza mi hanno ricordato la fatica che leggevo negli occhi
di mio nonno quando la sera rincasava.
Il
ritratto di Gagliano corrisponde ancora in parte alla nostra Italia e al nostro
Meridione. Un Paese in cui anche Cristo deve fermarsi per i disagi sociali,
economici e politici, oltre che geografici. In questo modo, l’affresco di Levi
lascia ancora un sentore amaro nella bocca del lettore italiano contemporaneo.
Arianna Di Fratta
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