di Adam Thirlwell
Guanda, 2015
[titolo originale: Lurid and Cute, traduzione di Riccardo Cravero]
pp. 262
€ 18,50 (cartaceo)
La nostalgia è la malattia del nostro tempo. Perché mentre altre generazioni hanno la capacità di lasciare che il loro passato e tutti i suoi manufatti si dissolvano in polvere, noi abbiamo questa disponibilità, su qualunque computer o telefono che ci capita di possedere, di tornare indietro a tutto il nostro passato. (p. 235)
Cosa lascerà la generazione dei trentenni? Un quesito che in pieno postmoderno Ellis e McInerney hanno risolto rompendo ogni idea di costruzione e deviando verso la totale perdita di finalità, con l'unico imperativo di sballare per non sentire. Qual è la ricetta di antieroe scelta da Thirlwell, quasi trent'anni dopo? Prendiamo un io-narrante logorroico, che sa distinguersi dagli altri proprio per il turbinio di speculazioni («L'unica cosa che mi ha sempre reso diverso dagli altri è che io, a me viene da pensare di più», p. 38), che si è licenziato perché è alla ricerca di una sua forma d'arte di cui non ha però la minima idea e d'altra parte neanche lo preoccupa l'aspetto economico, perché è viziato dai genitori benestanti. Aggiungiamo che non lo turba nemmeno dormire nella camera affianco ai genitori con la bellissima moglie Candy, di nome ma non di fatto, o meglio, solo inizialmente, visto che anche l'accondiscenza ha un limite («L'aggressività nei litigi è una cosa che viene molto bene alle persone in precedenza gentili»).
«Vile, goffo, scaltro e subdolo» proprio come riporta il titolo di una delle macrosezioni, il protagonista si fa subito conoscere dal lettore: quando apre gli occhi nella prima pagina, si sveglia in una camera d'albergo con un'amica della moglie, Romy, in una pozza di sangue e vomito. Morta? Che fare quindi? Lui ricorda a stento di esserci finito a letto, perché droga e alcol sono il mix indispensabile per la ricerca della felicità, ogni sera («la fuorezza era troppo il territorio che abitavamo», p. 132). Come risolvere il disastro? E soprattutto, come ripartire da lì e giustificare a Candy la sua assenza?
Dal momento che «le confessioni, mi sembrava, erano troppo una malattia del nostro tempo» (p. 51), molto meglio tacere la verità a Candy, tanto più che i drammi iniziali si rivelano meno gravi del previsto. Solo che il protagonista si lascia trasportare da qualcosa che non sa definire: vuoi che sia l'indolenza per le tante ore a casa o un reale sentimento, ma gli è quasi impossibile sottrarsi all'amica-amante Romy e non esserne geloso.
D'altra parte, la sua stessa vita disordinata e continuamente affollata da presenze, "fieste", sballi e conoscenze gli fa ripensare l'idea di famiglia tradizionale. Quando la madre prova a sondare sulle intenzioni con Candy, lamentandosi per la presenza in casa sempre più costante dell'amico Hiro, sballato e incostante, il protagonista ridiscute la famiglia mononucleare, preferendole la definizione di "troupe". Questa non contempla obblighi né responsabilità, ma solo la piacevolezza continua dello stare insieme a divertirsi:
Ci sono molti modi di stare insieme che non sono affatto una famiglia, ma qualcosa di più simile a una troupe. [...] Chi non è mai stato in una troupe si è perso una delle esperienze più piacevoli della vita. Ti fa sentire come se non ci fosse mai niente di noioso, perché di colpo hai sempre qualcuno con cui parlare, è uan cosa davvero coinvolgente, e questo porta come conseguenza che in generale spendi più soldi nei caffé e/o nelle brasserie perché stare seduto in quei posti diventa un piacere assoluto, cioè il modo in cui ti immergi nelle conversazioni e consideri la situazione del mondo in maniera globale, così che i soldi che magari spendi sono facilmente compensati dalla quantità di ennui che va distrutta. (p. 77)
Tuttavia, come il trentenne dovrà rendersi conto nel corso del romanzo, tra equivoci ilari, grandi e goffi colpi di scena, «il problema con la felicità è che molto spesso richiede la collaborazione di altri» (p. 115). E gli altri hanno loro sentimenti che, a furia di essere urtati o messi alla prova, scoppiano e disintegrano il falso menefreghismo iniziale. Sì, perché rispetto ai personaggi di Ellis, quelli di Thirlwell sentono e se provano il brivido di un'orgia tra amici, in realtà notano gli sguardi incrociati e non sono disposti a chiudere gli occhi... Poi, certo, tra accorgersi e agire passano tempo e riflessioni:
Se le cose facevano acqua da tutte le parti, il mio solo dovere era esaminare con cura le falle, che io fossi o meno l'agente della catastrofe. (p. 132)
Una generazione non interventista, piuttosto chiusa in sé, alla ricerca del brivido a qualsiasi costo, che Thirlwell denuncia con un sorriso ma anche con profondità, rendendo il protagonista simpatico e odioso a intermittenza. Più il lettore legge e più si prepara al disastro, di cui possono bastare due indizi: il migliore amico Hiro e una pistola giocattolo. Ma non temete, Tenero & Violento non è un romanzo all'Arancia meccanica: l'obiettivo del narratore è tracciare un percorso di formazione tra monologhi interiori, flashback e cortocircuiti linguistici:
Se dovessi dimostrare una sola cosa scrivendo questo resoconto, spero sia l'importanza delle regole nella mia vita (p. 14)
Che per arrivare all'obiettivo morale si attraversino riti di passaggio sessuali e sentimentali, dialoghi iperbolici e filosofie dilettantesche, è l'assicurazione di Thirlwell per riconfermarsi uno dei giovani narratori inglesi più acclamati.
GMGhioni