di Brian Morton
Sonzogno, settembre 2015
pp. 320
€ 17,50
Dio benedica Florence Gordon.
L’eccentrica, scorbutica, caustica, protagonista del romanzo omonimo di Morton recentemente pubblicato in italiano da Sonzogno, è l’ennesima conferma di quanto ci sia bisogno di personaggi femminili “scomodi”, pungenti e il più possibile lontani dallo stereotipo dell’eroe integerrimo che ancora – purtroppo – molta letteratura non è riuscita a superare. Ed è soprattutto di eroine imperfette che abbiamo bisogno, antipatiche e scontrose, dotate di una dose di sano egoismo, indipendenti e fiere: di personaggi femminili dalla morale discutibile, che spiazzano il lettore e lo destabilizzano perché rendono difficile un’immedesimazione immediata, empatica, ma che proprio per questo risultano brillanti. E che, alla fine, conquistano.
Come conquista infatti Florence, anima di questa commedia brillante, dolceamara, vagamente in stile Woody Allen, fin dalla prima pagina:
Florence Gordon stava cercando di scrivere un memoir ma due fattori giocavano contro di lei era vecchia ed era un’intellettuale. E chi mai al mondo, si domandava a volte, avrebbe voluto leggere un libro che parlava di una vecchia intellettuale? Forse c’era perfino un terzo fattore, perché non era solo un’intellettuale, era anche femminista. E questo significava che, se mai fosse riuscita a finire quel libro, i critici lo avrebbero inevitabilmente bollato come polemico e petulante.
Ma Florence Gordon non è certo una vecchia petulante. Polemica, quello a volte si.
È una settantacinquenne ebrea benestante, intellettuale femminista appunto, che vive a Manhattan perché «convinta che una vita vissuta altrove non si potesse davvero chiamare vita», intenzionata a scrivere un memoir sulla sua esperienza di militante; una donna di mezza età quindi, dall’aspetto austero e dalla lingua tagliente, eccentrica e indipendente, che si muove per la città sicura e fiera. Una solida rete di amicizie decennali, frequentazioni nei circoli intellettuali cittadini e un’instancabile passione per il proprio lavoro. Una signora, come lei stessa si descrive, «forte, fiera e indipendente, che accettava la vecchiaia ma si sentiva comunque fondamentalmente giovane» ma soprattutto «era anche, a sentire molte delle persone che la conoscevano e persino molte delle persone che l’amavano, un’autentica rompipalle». Una, per intenderci, capace di lasciare senza tante cerimonie la festa a sorpresa a lei dedicata per tornare di corsa nel suo appartamento e continuare il lavoro interrotto bruscamente, o gettare con uno scatto di rabbia il blackberry di un’amica nella brocca dell’acqua perché è da maleducati controllare ossessivamente le email mentre si è a cena in - sua - compagnia.
Una donna terribile, insomma. Che proprio per questo adorerete.
E che, inaspettatamente, si ritrova di punto in bianco ad essere una celebrità: quando in un articolo apparso sul New York Times viene definita “patrimonio nazionale”, la portata della fama di Florence conosce vette mai toccate prima, il suo nome rimbalza nei circoli culturali che contano da un lato all’altro del Paese e a settantacinque anni intraprende il suo primo tour promozionale importante, incantando il pubblico per intelligenza e arguzia. Instancabile, tra una presentazione e una protesta, la lingua sempre tagliente, si destreggia abilmente tra fan scatenate, giovani hipster e antichi rancori, tentando in qualche modo di conciliare questa nuova inaspettata fama e gli obblighi che ne derivano con gli impegni lavorativi, cercando il tempo per dedicarsi al memoir.
E proprio mentre tutto questo accade, mentre il lavoro di Florence riceve riconoscimenti importanti e nuove responsabilità, anche i rapporti famigliari si fanno più complicati e difficili da ignorare.
Se il romanzo di Morton poteva essere infatti una piacevole commedia caustica e brillante su una scontrosa, eccentrica, intellettuale femminista alle prese con la fama tardiva, ciò che lo rende ancora più interessante è il microcosmo che ruota intorno alla protagonista: la famiglia, con tutti i suoi difetti, incomprensioni, vizi e rancori repressi, di cui l’autore segue pensieri e dialoghi, un - breve - capitolo dopo l’altro, da differenti punti di vista.
Innanzitutto un ex marito, Saul, da cui Florence ha divorziato molti anni prima: scrittore fallito ma dall’enorme ego, un breve momento di successo in gioventù a cui non sono seguiti purtroppo risultati soddisfacenti. Troppo orgoglioso per chiedere seriamente aiuto, nasconde le proprie paure dietro rabbia malcelata e disprezzo. Curioso che proprio Florence abbia sposato un uomo tanto debole e meschino, che non faceva mistero dei ripetuti tradimenti, mentre inveiva contro quell’ambiente accademico di cui in segreto bramava far parte e dal quale, invece, è sempre stato escluso. Un uomo debole, mediocre, che da Manhattan è stato miseramente costretto a ritirarsi sempre più lontano dai circoli intellettuali che contano, una parabola al contrario rispetto a quella dell’ex moglie. Un uomo che nonostante tutto Florence ha sempre cercato di proteggere, minimizzando i propri successi e i fallimenti di lui, quasi a volersi scusare per averlo scelto e poi lasciato tanto in fretta, come se in fondo fosse stata consapevole che il loro matrimonio era qualcosa di estremamente transitorio, destinato a finire presto. Florence, che non teme di esprimere a voce alta la propria opinione né di ferire i sentimenti di chi le sta intorno, nei confronti di Saul – così debole, sconfitto dalla vita che non è stata all’altezza delle sue aspettative – rinuncia al ruolo della leonessa, sopportando stoicamente quei brevi momenti di incontro.
Se nella rabbia dell’ex marito comprende la frustrazione di un intellettuale fallito, del figlio Daniel non ha mai del tutto capito le scelte di vita che l’hanno portato prima ad arruolarsi nell’esercito e poi a diventare poliziotto, trasferirsi a Seattle e a mettere su famiglia con una psicologa, Janine, petulante e fastidiosa ammiratrice della suocera. Ma dopotutto la scelta di Daniel di allontanarsi dall’ambiente in cui è cresciuto non è poi cosa tanto inconsueta: con due genitori come Florence e Saul, così ambiziosi, brillanti – uno dei due almeno – e inseriti nell’ambiente intellettuale, è una reazione piuttosto comune che un figlio, magari mediocre, scelga di allontanarsi dal mondo in cui è cresciuto e di cui tutti naturalmente si aspettavano avrebbe un giorno fatto parte; la vita che sceglie è tuttavia piuttosto originale perfino per un caso come questo: sarebbe stato facile immaginarlo piccolo impiegato in qualche misero ufficio statale, o proprietario di una piccola libreria indipendente magari, invece Daniel sceglie la vita in divisa, un mondo regolato da un codice preciso in cui identificarsi fino in fondo e sentirsi finalmente del tutto affrancato dai suoi genitori e soprattutto dal loro ambiente. Dietro il distintivo di poliziotto il figlio di Florence Gordon si finge l’uomo comune per eccellenza, impegnato a svolgere al meglio il suo lavoro di cui condivide regole e morale, nella mediocrità di un quotidiano senza particolari ambizioni o stravolgimenti. All’apparenza impassibile, posato, tranquillo: “trattenuto” lo definisce un giorno la figlia Emily, “il professore” come lo chiamano invece ironicamente i suoi colleghi sorpresi di fronte ad un poliziotto che legge libri e parla in maniera colta.
Un uomo qualunque, una vita qualunque, che un tempo aveva dato l’idea a Janine di stabile felicità domestica con l’illusione di un futuro in cui Daniel avrebbe infine trovato il proprio posto in quel mondo intellettuale, così pieno di stimoli e sfide, da cui si era solo momentaneamente sottratto; deve essere stata una profonda delusione per lei rendersi conto che non c’era ambizione né desiderio di occupare infine il posto che gli spetta di diritto nel mondo in cui è cresciuto:
La vita che vivevano era molto lontana da quella che Janine aveva sognato per sé – una vita di eccitazione culturale, una vita di conversazioni, una vita in cui si incontravano sempre persone che facevano riflettere. Ciò che di quella vita era riuscita ad ottenere, a Daniel non interessava; era stato qualcosa che aveva dovuto cercare da sola.
Aspettative deluse e insoddisfazione che, nonostante i successi professionali e una certa stabilità famigliare, l’hanno portata spesso a cercare altrove stimoli ed eccitazione. Nei confronti della suocera Florence poi, l’ammirazione per lei e quel mondo vivace e brillante di cui è protagonista è quasi imbarazzante. Florence, neanche a dirlo, non sopporta gli sforzi della nuora che sempre fallisce nel tentativo di compiacerla ed adularla e, con un pizzico di perfidia, si diverte a torturarla:
[…] stare in compagnia di Florence non era sempre come si sperava che fosse. Florence non permetteva mai agli altri di rilassarsi. Chiedeva sempre a Janine se avesse letto o sentito questo o quello, e la risposta di solito era no. Alla fine di ogni incontro, Janine aveva la sensazione di essere stata vittima di un qualche genere di pestaggio intellettuale. Florence era vagamente offensiva anche quando non intendeva esserlo. Faceva sempre sentire Janine come se non riuscisse ad essere all’altezza della promessa del femminismo.
Di sicuro guadagnarsi l’approvazione e il rispetto di una suocera come Florence deve essere un’impresa davvero titanica, in cui la mediocre, insicura Janine non può riuscire, nonostante i continui sforzi. Almeno la suocera sembra ignorare con uguale intensità Janine e lo stesso Daniel, verso cui negli anni ha perso ogni interesse e desiderio di riavvicinamento e comprensione reciproca. Perché in fondo la vita di Florence è così piena di lavoro, battaglie, discorsi e saggi da scrivere e le persone – i famigliari soprattutto - che la circondano così mediocri e deludenti da non farle rimpiangere la lontananza e il distacco che negli anni si sono accumulati. E averli ora tutti qui, a New York, in un momento tanto impegnativo, con le loro vite problematiche non può che essere un fastidio da cui cercare di non farsi travolgere.
La Woolf aveva detto che la sfida più grande per una scrittrice era uccidere l’”angelo del focolare” – quella parte di sé che era stata addestrata ad anteporre i bisogni degli altri ai propri in ogni situazione.
Una lezione che certamente Florence aveva presto assimilato, senza alcun rimorso o ipocrisia, è una madre, una nonna, una suocera assente e per questo non se ne fa alcuna colpa; con l’avanzare dell’età non è scattato in lei il desiderio di recuperare i rapporti con la propria famiglia né si è ammorbidita nei confronti delle persone, che ancora giudica spesso deludenti e frivole. Ed è proprio questo aspetto a rendere il personaggio di Florence intrigante e fresco, questo suo essere pienamente indipendente e comportarsi in modo del tutto contrario a come la società ci si aspetterebbe da una settantacinquenne, da una donna. Nessuno pare notare le mancanze affettive di Saul, le sue inadeguatezze come genitore, mentre le scelte di Florence subiscono il giudizio - anche quando non chiaramente espresso ma solo insinuato – della società e dei lettori. Questa donna così indipendente e fiera, circondata da uomini deboli e non all’altezza, amiche devote, giovani editor che la stimano profondamente, che non è mai scesa a compromessi. È questo a renderla vincente, è questo, insieme alla battuta pungente, a renderla un personaggio straordinario. Inevitabile chiedersi quali sacrifici il successo e l’appagamento professionale possano aver comportato e in quale misura; Florence sembra una donna soddisfatta della propria vita e delle proprie scelte, le mancanze delle persone che la circondano non sembrano mai velate dal timore di non essere stata all’altezza – come madre, come moglie, come figura di riferimento – e insinua il dubbio che, finalmente, un po’ di sano egoismo possa essere la chiave per il tipo di vita che più ci appartiene.
Inaspettatamente l’unica persona capace di suscitare un – seppur minimo – interesse nella vecchia Florence è la giovane nipote Emily, che ha appena lasciato il college in cerca della propria strada. Intelligente, acuta, per nulla intimorita da quella nonna diventata una celebrità e assolutamente poco incline ad idolatrarla come sembra invece fare sempre sua madre, Emily è di sicuro incuriosita dall’eccentrica signora e dai suoi modi bruschi e sgarbati; inizialmente infastidita per quella nonna che sbaglia perfino il nome della nipote, che non si scusa per scortesie e mancanza di affetto, con il tempo l’eccentricità e soprattutto la forza di quella donna battagliera la incuriosiscono al punto da offrirsi di diventarne l’assistente in quei mesi estivi a New York e imparare quanto più possibile dalla donna, finendo forse per diventare la persona a lei intimamente più vicina, mentre cerca di conoscerla attraverso le battaglie e gli scritti di tutti quegli anni di attivismo:
Nel corso degli anni molte sue convinzioni erano cambiate e così il modo in cui le esprimeva, ma Emily stava cominciando a pensare che, in ciò che importava davvero, Florence non fosse cambiata per niente. Era sempre stata femminista e sarebbe sempre stata una combattente. […] Era sempre indignata per qualcosa che aveva letto o sentito o visto, eppure c’era qualcosa in lei che non abbandonava mai la speranza.
Inutile però aspettarsi slanci d’affetto, confidenze o riconoscimenti da lei: Florence è e sempre rimarrà Florence, priva di tatto, insofferente alle smancerie, intollerante verso la mediocrità e piuttosto disinteressata a quello che succede nella sua famiglia, nonostante questa rischi forse di andare in pezzi. Non spetta a lei dopotutto risolverne i problemi, sollecitare il dialogo, perdonare tradimenti, capire infelicità e frustrazioni; non giudica – o non lo fa apertamente – quelle vite a lei vicine, non da conforto o suggerimenti, né tantomeno da l’idea di aver provato interesse, seppur per un attimo.
Florence, che a settantacinque anni e con una caviglia dolorante non ha paura di affrontare una manifestazione o la polizia, figuriamoci la vita.
E di Florence, chiuso il romanzo, avremo certo una gran nostalgia.
di Debora Lambruschini
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