Foto di © Elena Ghioni per CriticaLetteraria |
A pochi giorni dall'inizio delle scuole, dopo aver riflettuto sul perché D'Avenia sia tra i libri più consigliati da insegnanti e studenti, sul banco (degli imputati?) ho messo un altro libro: Io non ho paura, un sempreverde di Niccolò Ammaniti che Einaudi continua a ristampare a grande richiesta. E non mi sorprende.
L'ho riletto quest'estate, a distanza di anni, sempre ad alta voce, per accompagnare due poco disinvolti lettori all'analisi testuale. Bene: Io non ho paura è un romanzo adatto, anzi adattissimo, per parlare di formazione in negativo, senza fronzoli e noie.
Perché tutto, nel libro di Ammaniti, suggerisce: crescere è aprire gli occhi, a qualsiasi costo, un po' come sosteneva quel Tozzi che io, forse un po' coraggiosamente (spero non avventatamente) porterei volentieri in classe. Aprire gli occhi implica vedere una realtà diversa dalle storie per la buonanotte che ci sono state raccontate, per quanto la quotidianità del protagonista, Michele, sia ben lontana dalla favola. Michele e i genitori vivono ad Acqua Traverse, una frazioncina di quattro case (letteralmente) in un Sud Italia scabro, con quel meriggio col sole a picco di verghiana memoria. Michele e gli amichetti hanno poco con cui giocare, o forse tanto: le loro biciclette e tutta la campagna riarsa. E mentre scorrazzano per campi siccitosi, le sfide e le penitenze si moltiplicano. Michele non è un bullo, né un ragazzino passivo, anche perché ha sempre accanto la sorellina a cui deve badare, e questo vago senso di responsabilità (vago quanto può averne un bambino) lo trattiene. Immedesimarsi in lui, nella sua vicenda, è quasi inevitabile: a chi non è mai successo di correre rischi per farsi accettare dal gruppo? O di sognare un'intera campagna in cui avventurarsi?
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È quando ormai Michele è un po' una nostra appendice (complice la narrazione in prima persona), che Ammaniti scocca la freccia della fantasia: in un buco, dove arriva per caso, il protagonista scopre il corpo di un bambino. Se lo scrittore avesse voluto scrivere un thriller, lì sarebbe stato il punto giusto per accrescere la suspense e lasciare Michele come testimone di un omicidio. Invece no. Il bambino, Filippo, è vivo, per quanto macilento e spaventatissimo. E Michele sa che qualcosa non va, ma vuole tenere per sé questo nuovo "amico", senza che la compagnia scopra perché lui porti cibo in quel posto desolato a strani orari. Così parte uno strano ma straordinario appuntamento quotidiano, e nel corso del romanzo Michele scopre che l'amicizia non è possesso, ma è altruismo, lasciare liberi gli altri di restarci accanto. O di andarsene.
E poi c'è la famiglia, altro filone fortissimo e altamente drammatico del romanzo: all'inizio della storia, Michele adora il padre, assente perché camionista ma dolce, e teme la madre autoritaria, che tuttavia non lesina abbracci. Il ragazzino non immagina dove la povertà abbia portato i genitori, ovvero ad accordarsi con gli altri abitanti del paese per rapire un ragazzino del Nord, Filippo appunto, per il riscatto. Il lettore (per quanto piccolo sia, e d'altra parte non farei leggere il romanzo prima dei 14/15 anni) invece si accorge presto della verità, e vorrebbe avvertire Michele di non farsi infinocchiare, di aprire gli occhi ma... Ogni cosa a suo tempo. Prima ci sono i sospetti, i dialoghi origliati a cui però è difficile dare un senso, poi il terribile dubbio. Quindi, la consapevolezza che, come in un film dell'orrore, i visi protettivi dei genitori vanno assumendo i connotati spietati da nemici. Allora che fare: restare fedeli e fingere di non capire, o prendere posizione? Il rischio è altissimo: accettare che l'umanità dei genitori possa trasformarsi in disumanità, o perlomeno ne assuma tutti gli aspetti.
Così, la suspense cresce, impercettibilmente in un climax ascendente che coinvolge tutto il romanzo, tra dialoghi svelti che ammansiscono anche il lettore più svogliato.
È lì, tra un dialogo e l'altro, che Ammaniti scrittore approfitta sapientamente per inserire un tessuto fitto di splendide similitudini, che non hanno nulla di scontato (finalmente, dopo D'Avenia!). Da un lato, virano verso la concretezza di paragoni animali, a cui Michele narratore associa il comportamento degli altri personaggi. Dall'altro, piegano verso descrizioni liriche del paesaggio, guardato sempre da un occhio poetico, attento ai cromatismi ma anche ai più lievi mutamenti della campagna. E qui ogni prof sa bene quali bei lavori di ricerca, rielaborazione e ripresa si possano fare.
In più, il romanzo offre uno dei finali a sorpresa più sconvolgenti della narrazione contemporanea, e la maggior parte dei giovani lettori commetterà un errore innocente, dato forse dalla troppa immedesimazione: ma Michele muore? Me lo hanno chiesto sempre. Un consiglio? Al contrario di una collega che rispondeva "chissà", state attenti, la risposta è contenuta nel testo: la narrazione è sì raccontata da Michele, ma da un Michele adulto, vent'anni dopo i fatti nel romanzo. Solo così, cara collega mi rivolgo a te, certe similitudini possono essere verosimili. Metterle in bocca a un ragazzino delle medie, cara mia, sarebbe da folli quasi come assegnare letture estive che non si conoscono...
GMGhioni