Il 19 settembre 1985, all'Ospedale Santa Maria della Scala di Siena, ci lasciava Italo Calvino. 62 anni, decisamente in anticipo sui tempi. Avrebbe avuto ancora molto da scrivere e da dire: quelle Lezioni Americane che mai ha potuto tenere ad Harvard, ma che per fortuna oggi possiamo leggere.
Raccogliere quasi 40 anni
di scrittura in un unico articolo è impresa ardua e presuntuosa,
così come concentrarsi su un'unica opera sembra certamente
riduttivo. Così la soluzione è
lasciar parlare lui, tramite le sue opere. Ma quale scegliere? Forse
per cimentarmi con qualcosa di non troppo grande ho pensato alla
prima: Il sentiero dei nidi di ragno. Uscito nel 1947 per la collana
I Coralli di Einaudi, quando Calvino aveva 24 anni, è il primo vero
e proprio romanzo dell'autore, che fino ad allora aveva pubblicato
solo qualche racconto. Sono gli anni dell'immediato Dopoguerra, anni
di “esplosione letteraria, un multicolore universo di
storie” come dice l'autore
stesso nella prefazione al libro del 1964. Tutti erano reduci
dell'esperienza totalizzante che era stata la guerra, tutti avevano
una storia da raccontare: lo spirito embrionale del Neorealismo è
tutto qui. Il Sentiero, sul crinale tra la forma del romanzo breve e
del racconto lungo, a livello di trama è molto semplice e lineare. È
la storia di un ragazzino ligure, Pin, che tra una bravata e l'altra
si unisce un po' per caso a un gruppo di partigiani, tutti tipi “un
po' storti”. Nessun intento
celebrativo, solo lo zampettare qua e là di uno scapestrato che rincorre una pistola. Se ci
fermassimo qui avremmo un racconto per ragazzi, e invece il libro è
considerato tra i capisaldi del Neorealismo. A far la differenza è
un capitolo, il capitolo nono. Per tirare le somme: Calvino esordiente non vuole
tingere di un'unica tonalità celebrativa l'esperienza partigiana,
quindi da una parte sceglie per protagonista un ragazzino (e non, per
esempio, un giovane Milton) e, non solo, lo inserisce tra figure non
del tutto trasparenti e di certo per nulla eroiche.
“Volevo lanciare una sfida ai detrattori della Resistenza e nello stesso tempo ai sacerdoti di una Resistenza agiografica ed edulcorata”.
Ma
Calvino ha 24 anni e ha appena vissuto la guerra e non può del tutto
sottrarsi alla necessità di dire la sua. Egli afferma, sempre nel
'64: “per soddisfare la necessità di un innesto
ideologico, io ricorsi all'espediente di concentrare le riflessioni
teoriche in un unico capitolo che si distacca dal tono degli altri,
il IX, quello delle riflessioni del commissario Kim, quasi una
prefazione inserita nel mezzo del romanzo”.
In
effetti il capitolo IX è diverso da tutto il resto del romanzo, una
pausa dal tram-tram delle altre pagine. Prende parola Kim, commisario
di brigata, una sorta di alter-ego dell'autore, o meglio del cotè
“serio” del carattere dell'autore, al quale viene affidata la visione della storia
e della guerra. Solo in questo capitolo emerge la profondità del romanzo, con un insieme di riflessioni molto serie sul senso della vita e della storia, vista come un insieme di piccoli gesti singoli, dove l'azione di ognuno di noi ha un'importanza capitale. La guerra invece è puro furore umano che spinge l'uomo a liberarsi dalle proprie miserie e a sperare in un futuro migliore.
“Kim è studente, invece: ha un desiderio enorme di logica, di sicurezza sulle cause e gli effetti, eppure la sua mente s'affolla a ogni istante d'interrogativi irrisolti. C'è un enorme interesse per il genere umano, in lui: per questo studia medicina, perché sa che la spiegazione di tutto è in quella macina di cellule in moto, non nelle categorie della filosofia. Il medico dei cervelli, sarà: uno psichiatra: non è simpatico agli uomini perché li guarda sempre fissi negli occhi come volesse scoprire la nascita dei loro pensieri e a un tratto esce con domande a bruciapelo, domande che non c'entrano niente, su di loro, sulla loro infanzia”.
“Poi, dietro agli uomini, la grande macchina delle classi che avanzano, la macchina spinta dai piccoli gesti quotidiani, la macchina dove altri gesti bruciano senza lasciare traccia: la storia”.
“Tutto deve essere logico, tutto si deve capire, nella storia come nella testa degli uomini: ma tra l'una e l'altra resta un salto, una zona buia, dove le ragioni collettive si fanno individuali, con mostruose deviazioni e impensati agganciamenti”.
“C'è allora tra gli uomini un grande muovere di schiene, di mani che si stringono, di parole esclamate a denti duri: è la battaglia che è già cominciata in loro, gli uomini hanno già la loro faccia di battaglia, tesa e dura, e cercano armi per sentire tatto di ferro sotto le loro mani”.
“Domani ci saranno dei morti, dei feriti. Loro lo sanno. Cosa li spinge a questa vita, cosa li spinge a combattere, dimmi? Vedi, ci sono i contadini, gli abitanti di queste montagne, per loro è già più facile. I tedeschi bruciano paesi, portano via le mucche. È la prima guerra umana la loro, la difesa della patria, i contadini hanno una patria. […] E la patria diventa un ideale sul serio per loro, li trascende, diventa la stessa cosa della lotta: loro sacrificano anche le case, le mucche per combattere. […] Poi gli operai. Gli operai hanno una loro storia di salari, di scioperi, di lavoro e di lotta gomito a gomito. Sono una classe gli operai. Sanno che c'è del meglio nella vita e che si deve lottare per questo meglio. Hanno una patria anche loro, una patria ancora da conquistare, e combattono per conquistarla. […] Poi c'è qualche intellettuale o studente, ma pochi, qua e là, con delle idee in testa, vaghe e spesso storte. Hanno una patria fatta di parole, o tutt'al più di qualche libro. […] Poi chi c'è ancora? Dei prigionieri stranieri, scappati da campi di concentramento e venuti con noi; quelli combattono per una patria vera e propria, una patria lontana che vogliono raggiungere e che è patria appunto perché è lontana. Ma capisci che è tutta una lotta di simboli, che uno per uccidere un tedesco deve pensare non a quel tedesco ma a un altro, con un gioco di trasposizioni da slogare il cervello, in cui ogni cosa o persona diventa un'ombra cinese, un mito”.
“[...] sparare con lo stesso furore, con lo stesso odio, contro gli uni o contro gli altri , fa lo stesso […] la stessa cosa ma tutto il contrario. Perché qui si è nel giusto, là nello sbagliato. Qua si risolve qualcosa, là ci si ribadisce la catena.[...] quel furore antico che è in tutti noi, e che si sfoga in spari, in nemici uccisi, è lo stesso che fa sparare i fascisti, che li porta a uccidere con la stessa speranza di purificazione, di riscatto. […] da noi niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro […] tutto servirà se non a liberare i nostri figli, a costruire un'umanitò senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L'altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori […] perché non fanno storia ma servono a ripetere e perpetuare quel furore e quell'odio”.
“Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali. Una spinta al riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni: per l'operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue inibizioni, per il paria dalla sua corruzione. Io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti la utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l'uomo contro l'uomo”.
"Ma la storia è fatta di piccoli gesti anonimi, forse domani morirò, magari prima di quel tedesco, ma tutte le cose che farò prima di morire e la mia morte stessa saranno pezzetti di storia, e tutti i pensieri che sto facendo adesso influiscono sulla mia storia di domani, sulla storia di domani del genere umano".
Per concludere, un'ultima frase tratta dallo stesso capitolo, così limpida da parlare per sè. Sentitevi liberi di interpretarla come un invito, un ennesimo regalo di Calvino.
"Forse un giorno si arriverà ad essere tutti sereni, e non capiremo più tante cose perché capiremo tutto".
[Edizione di riferimento per le citazioni: Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Oscar Mondadori, Milano, 2010.]
Elena Sizana