I Tolkien di Giulia, ed. Bompiani |
Ho sempre odiato Tolkien e i fantasy in
generale. Orecchie a punta, piedi sporchi e barbe lunghe non hanno mai fatto
troppo per me. Mi sono sempre piaciute le creature mediterranee, le ninfe che
si trasformano in piante come quelle dei Miti Greci o i terribili dei
mesopotamici, che se non fai il bravo si mangiano il mondo intero. La saga de
“Il Signore degli Anelli” l’ho vista e conosciuta al cinema come tanti, come tutti. Vidi la
trilogia senza non aver mai letto neppure un rigo del romanzone di Tolkien e,
francamente, ci capii poco o niente. Ma d’altro canto la forza delle immagini
di Peter Jackson e la favolosa commistione tra attori reali ed effetti speciali
di computer grafica stava già facendo il suo effetto. Quando vidi le tombe “a
tholos” dei valorosi cavalieri di Rohan ebbi la netta sensazione che qualcosa
stava cambiando, confermata dalla mia assoluta emozione nel vedere, proprio
come aveva detto Gandalf il fu grigio ora
il bianco, arrivare da est dopo tre giorni i Rohirrim per spazzare via le
orde di Mordor dal Fosso di Helm. Niente fantasy, erano gli epiteti esornativi
che mi riempivano il cuore, l’aria epica e classica che si poteva respirare per
la Terra di Mezzo che guidava i miei passi. Passi che mi condussero dritto
dritto in libreria dove, qualche anno prima quasi con un riflesso condizionato
degno di un cane pavloviano, prendeva polvere il tomone Bompiani. Era Natale e
cadeva una neve lieve che sembrava forfora. Furono le canzoni di Tom Bombadill
a farmi entrare appieno nel narrato tolkeniano e fu il, almeno per me, favoloso
epilogo in cui si vede la Contea in balia degli ultimi uomini superstiti di
Saruman a conquistarmi dalla punta dei capelli a quella dei piedi. Anche se non
sono solito camminare scalzo, i chilometri di carta che ho macinato sulle
pagine di Tolkien non mi hanno mai fatto dolere le gambe ma soltanto spinto a
fare “un altro passo e un altro e un altro ancora”.
La libreria "tolkieniana" di Luca |
Tolkien e io ci conosciamo fin da quando ero un bambino piccolo, ma non ci siamo mai capiti davvero finché non sono diventato un bambino grande.
Quand'ero piccolo in casa mia si leggeva perlopiù fantascienza (mio padre) e grandi classici (mia madre): una specie di domestica divisione di compiti letterari che non è mai stata vista nell'ottica di una contrapposizione tra letteratura alta e letteratura bassa, mio dio, ma semplicemente tra storie che raccontavano il mondo come sarebbe potuto diventare e storie che raccontavano il mondo com'era. Una situazione in cui il fantasy faceva fatica a collocarsi: in fondo quelle storie con maghi, elfi, nani e draghi non sembravano appartenere a nessuna delle due tipologie. I maghi non esistevano nel mondo com'era, e non c'erano in vista grandi possibilità di una loro comparsa nel mondo futuro. Io, poi, ho imparato a leggere su Jules Verne, che in un certo senso sintetizzava in sé le caratteristiche delle letture dei miei; perciò anch'io non riuscivo a trovare un posto per il fantasy, nella mia scaffalatura mentale in formazione.
Eppure spesso si sentiva parlare di Tolkien, un po' dappertutto. Dagli ambientalisti, che ne facevano un vessillo del ritorno a un sistema di vita più compatibile con la natura; dai cattolici, che lo leggevano come una specie di allegoria della venuta di Cristo; dalla destra, che nelle sue storie vedeva rispecchiati i valori medievali duri e puri della sua ideologia, e dalla sinistra, che invece ci trovava la miglior rappresentazione possibile della tensione ideale per una società pura e non corrotta da potere e denaro. Tolkien sembrava essere sulla bocca di tutti i più grandi tromboni del mondo: lo strumento duttile ed elastico di ogni propaganda. E a me la propaganda, di ogni genere, ha sempre fatto salire il sangue alla testa. Se Tolkien andava bene per loro, come poteva andare bene per me?
A farmi cambiare idea, per fortuna, ci hanno pensato, tra i miei 18 e 22 anni, i Blind Guardian e Peter Jackson. Nightfall in Middle-Earth, il concept album epic metal dei primi, riplasmava la storia del Silmarillion in una cascata di sonorità che andavano dall'epica guerresca ai canti dei menestrelli alla ballata d'amore; nel 1998, al liceo, lo ascoltavo almeno dieci volte al giorno, perciò era piuttosto inevitabile che quell'album finisse per impiantarmi nel cervello le atmosfere di solitudine, malvagità oscura e lealtà incrollabile di cui, come scoprii anni dopo, si saturavano la creazione del mondo di Tolkien e le lotte per il possesso dei Silmaril. Anni dopo Peter Jackson arrivò a dare forma visiva (un'eccezionale forma visiva, Peter: a proposito, grazie) a un'immaginario che, per una ragione o per l'altra, cominciava ad attrarmi sempre di più.
Finché nell'estate del 2003, la più torrida estate della storia, andai in libreria e comprai, uno dopo l'altro, Lo Hobbit, Il Signore degli Anelli e il Silmarillion. Faceva troppo caldo per fare qualsiasi cosa, io ero bloccato in città e volevo qualcosa che mi portasse altrove e non mi impegnasse troppo la testa. E be', altrove mi ci portarono, quei libri, eccome. Quello che non potevo prevedere, però, era l'effetto collaterale. Le storie di Tolkien, le riflessioni sulla natura del potere, il suo mondo così minutamente e organicamente ricostruito, le sue idee cosmogoniche (la nascita del mondo dalla musica!), la rielaborazione di miti e leggende in una struttura narrativa così straordinariamente perfetta, l'abilità di narratore con cui Tolkien sapeva destreggiarsi tra lingue, ambientazioni e caratteri diversissimi, mi rimasero così profondamente impressi in mente che da allora Tolkien costituisce per me uno dei miei paradigmi standard di qualsiasi cosa si intenda per letteratura.
Perché sì: che ti piaccia o no, uno dei più grandi scrittori del secolo scorso – uno dei Grandi, in effetti – si chiama J.R.R. Tolkien. E non tanto perché, a sessant'anni dalla prima edizione de Il Signore degli Anelli, il successo di pubblico dell'opera tolkieniana non accenna a diminuire: quello è l'effetto, non la causa. Il vero cuore della grandezza di Tolkien pulsa più in profondità: semplicemente, qualunque compito o ruolo tu decida di attribuire a quel complesso sistema di valori e funzioni che chiamiamo Letteratura, l'opera di Tolkien sarà sempre perfettamente in grado di assolverlo. Bussola etica, specchio esistenziale, creazione di mondi alternativi, riflessione sul potere delle storie, strumento di comprensione e interpretazione del reale, tutto quello che vuoi: Tolkien non cederà mai il passo.
E tu, con tutto il tuo armamentario ideologico, con tutto il tuo disincanto postmoderno. Tu. Non puoi. Passare.
GIULIA E L'APPRODO NEL REGNO DEL FANTASY
Non mi piaceva il fantasy. Tutte le volte che qualcuno faceva il nome del più commerciale Terry Brooks, dell’allora nascente in popolarità Rowling e del mostra sacro Tolkien, io storcevo il naso e dicevo che il genere non faceva davvero per me. Il mio allora compagno di banco del liceo, un giorno, mi portò un volumetto smilzo “Il cacciatore di draghi” di J.R.R. Tolkien dicendomi che, se proprio non volevo incominciare con i classici hobbit, anelli del potere e Silmarillion almeno avrei potuto farmi un’idea dello scrittore. Probabilmente non era il 22 settembre, ma ai fini di questo intervento possiamo anche immaginare di sì.
Non mi piaceva il fantasy. Tutte le volte che qualcuno faceva il nome del più commerciale Terry Brooks, dell’allora nascente in popolarità Rowling e del mostra sacro Tolkien, io storcevo il naso e dicevo che il genere non faceva davvero per me. Il mio allora compagno di banco del liceo, un giorno, mi portò un volumetto smilzo “Il cacciatore di draghi” di J.R.R. Tolkien dicendomi che, se proprio non volevo incominciare con i classici hobbit, anelli del potere e Silmarillion almeno avrei potuto farmi un’idea dello scrittore. Probabilmente non era il 22 settembre, ma ai fini di questo intervento possiamo anche immaginare di sì.
Aegidius de Hammo era un uomo che viveva nel bel mezzo dell’isola della Britannia. Il suo nome completo era Aegidius Ahenobarbus Julius Agricola de Hammo, perché in quell’epoca, molto tempo fa, quando quest’isola era ancora felicemente divisa in molti regni, le persone erano dotate di nomi altisonanti.
Posso capire e immaginare che l’approccio a Tolkien non sia dei più semplici e che molti possano avere delle riserve. Questo libello contiene una serie di elementi che poi saranno ricorrenti nella prosa e nella narrativa dell’autore; la mescolanza di realtà e fantasia è così equilibrata da consentire un sereno e non troppo scioccante approdo nel mondo tolkeniano. L’azione si svolge in Gran Bretagna in un indefinito Medioevo: lo spazio è nettamente diviso tra il villaggio, sicuro e assoggettato al dominio dell’uomo, e il pericoloso “esterno” detto anche “Vasto mondo” o “Colline selvagge” dove abitano tutti gli esseri del folklore e della fantasia anglosassone. Il protagonista è un semplice agricoltore di nome Giles che, più per fortuna che per reali meriti, si procura la nomea di eroe per aver salvato il proprio borgo dall’attacco di un gigante. A seguito di ciò viene incaricato dal re di scovare e cacciare il pericoloso drago Chrysophylax Dives; al sua fianco pende la famosa spada Mordicoda, flagello e terrore di ogni drago. Più che un fantasy pare un racconto cavalleresco e Giles potrebbe benissimo essere chiamato Orlando o Lancillotto. Se in questo 22 settembre volete concedervi un tentativo per entrare nel mondo di Tolikien questo è il volume che fa per voi. Attenzione: una volta entrati non se ne esce più.
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