Not all those who wonder are lost. |
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LAURA & TOLKIEN
Il mio amore per Tolkien, lo dico subito, è atipico. Non ho capito che mi aveva cambiata per sempre all’ultima pagina del Ritorno del re, anche se per un adolescente chiudere la sua prima trilogia, girarsi indietro e vedere mille pagine dietro di sé, è sempre un grande momento di passaggio, come arrivare in cima a una montagna. Non ho capito che Tolkien mi aveva cambiata all’ultima pagina dello Hobbit. Se la trilogia del Signore degli Anelli era stata l’altissima montagna, le avventure di Bilbo Baggins erano state una gioiosa discesa giù per il pendio di una collina.
Il “mio” Tolkien l’ho scoperto su altre pagine, quelle del Silmarillion. Ricordo un’estate in giardino, nella quiete delle vacanze scolastiche (quella quiete che non ritorna più), ore trascorse sulle mappe della Terra di mezzo in pigri pomeriggi d’agosto. Ricordo un senso di sottilissimo piacere nello scorrere le infinite tavole di genealogie elfiche, nello snocciolare quei nomi bellissimi e liquidi e i loro appellativi – Glorfindel, Manwë, Elrohir, Lúthien Tinúviel – come se ripeterli avesse potuto materializzare un po’ di quella meraviglia dal sapore antico.
Lo Hobbit è una favola, il Signore degli anelli un’epica in prosa, ma il Silmarillion è la cronaca della creazione di un mondo e di un tempo perduto. «Esisteva Eru, l'Unico, che in Arda è chiamato Ilùvatar; ed egli creò per primi gli Ainur, Coloro che sono santi, progenie del proprio pensiero, ed essi erano con lui prima che ogni altra cosa fosse creata. Ed egli parlò loro, proponendo loro temi musicali; ed essi cantarono al suo cospetto, ed egli ne fu lieto. Ma a lungo cantarono ognuno da solo, o solamente pochi assieme, mentre gli altri ascoltavano; ciascuno di loro penetrava infatti soltanto quella parte della mente di Ilùvatar da cui proveniva e nella comprensione dei propri fratelli essi crescevano solo lentamente. Tuttavia, semplicemente ascoltando pervenivano a una comprensione più profonda, e accrescevano l'unisono e l'armonia fra loro».
Leggevo di un mondo creato dalla musica, da un canto corale, e mi ha insegnato come concepire la bellezza nella sua forma più alta, e quest’idea non me la sono scollata più dalla mente. E sono rimasta una "tolkeniana delle piccole cose". Di tanto in tanto, il canto tremante di Pippin risuona ancora nella mia testa: Home is behind, the world ahead, and there are many paths to tread – through shadows to the edge of night, until the stars are all alight. Quando, un paio d'anni dopo, ho letto sui banchi di scuola della Camilla virgiliana e della Clorinda ariostea, ho sempre pensato al grido di Eowyn: No living man am I! You look upon a woman. Non ho smesso di andare in giro con ciocche di capelli intrecciate alla maniera degli elfi. E la cosa più importante: la mattina per me non esistono merende, ma soltanto “seconde colazioni”.
Il Signore degli Anelli di Federica, nell'edizione Rusconi |
Trenta giorni. Non uno di più, non uno di meno. Questo è il lasso di tempo che ho trascorso risucchiata dalle pagine de Il Signore degli Anelli.
Nel gennaio 2002, nel corso della mia prima media, vivo il
momento d’oro della fase Fantasy: saghe intere divorate in pochi giorni, regni
di Avalon scintillanti e Terry Brooks personale dea dell’Olimpo. In quello
stesso periodo mio papà, amante del cinema d’azione e di fantascienza ma non
assecondato dalla mamma in questa passione, mi trascina a vedere La Compagnia dell’Anello. Il film non
incontra propriamente i suoi gusti e si avvicina più ai miei, ma è un
compromesso da accettare per evitare l’ennesimo pomeriggio cinefilo in
solitaria. Io, ovviamente, sono nel mood
giusto per vederlo, sebbene non abbia ancora letto Il Signore degli Anelli. Troppo lungo, mi avevano detto; troppo
complicato, mi avevano avvertito. Uscita dalla sala meno entusiasta del
previsto però, il desiderio della lettura si fa molto forte: avrei potuto accettare
la visione di un film tratto da un libro prima di averne letto il libro stesso,
ma non avrei mai potuto sopportare di guardare l’intera trilogia senza averne sfogliato
prima nemmeno una pagina.
Una volta a casa la mamma mi indica un volume giallino e
sgualcito: è la versione Rusconi tanto ricercata nel mercato librario, mi dice,
e ammette con un pizzico di senso di colpa che a prestargliela era stato un suo
compagno di scuola a cui mai la restituì. «Che importa oramai? È nostro per usu capione».
Inizio la lettura e ne rimango ammaliata. Terry Brooks
viene scalzata e al suo posto si erge adesso John Ronald Reuel Tolkien. Ma c’è
di più. Tra le pagine rinvengo capelli (e via a costruire storie di mirabolanti
avventure vissute dal volume) e pezzi sparsi della mappa della Terra di Mezzo,
distrutta probabilmente da lettori poco attenti. La ricostruisco con cura e,
per averla sempre sotto mano evitandone il danneggiamento, la posiziono tra la
scrivania e il vetro che la ricopre.
I trenta giorni passano, gli anni pure, attraverso una
nuova fase di lettura, ma la mappa rimane lì, al suo posto. Il Signore degli Anelli è diventato per
me, allora, non una semplice lettura ma una sorta di monito; un messaggio
continuo di lealtà e amicizia, di attaccamento alla patria e di impegno per il
raggiungimento di un obiettivo. Poco importa se l’edizione che avevo stretto
tra le mani non fosse, in realtà, così preziosa come mia mamma credeva: lo era
per me, mia personale guida di vita.
CAROLINA & TOLKIEN
Ricordo un inverno della mia adolescenza. Avevo chiesto – e trovato sotto l’albero di Natale – una copia del Signore degli anelli. Era arrivato in una bella edizione Bompiani, 1366 pagine sottili come carta velina, 1366 pagine di parole che si accalcavano l’una sull’altra, minuscole e fitte come impronte di formiche. Sottilmente inquietata, l’ho posato su un ripiano della mia libreria e l’ho osservato per giorni, quando andavo a letto la sera e quando mi rialzavo la mattina. Un paio di volte l’ho anche aperto, ho letto qualche riga, l’ho sempre richiuso e rimesso al suo posto. Vigilava gentile e immoto sui miei sonni e un po’ alla volta è entrato nell’abitudine ed è stato dimenticato. Sono passati i mesi ed è arrivata la primavera. La mia migliore amica, più ardimentosa di me, aveva affrontato l’opera e si presentava a scuola ogni giorno celebrando le imprese di Frodo, il fascino di Aragorn, la grazia leggera di Legolas. Io non avevo il coraggio di ammettere la mia pigrizia, di riconoscere di non averlo ancora letto (ho scoperto solo in seguito il trucco, quando ho visto la sua edizione divisa in tre maneggevoli volumi). Una domenica mattina, per non essere da meno, ho deciso di rimediare alla mia mancanza: mi sono distesa sul divano e ho cominciato. Mi sono alzata la sera, con i bicipiti doloranti, solo per trasferirmi a letto e continuare. Così per giorni, in ogni minuto libero, fino all’ultima pagina. Ho amato Tom Bombadil, mi sono rammaricata quando è stato lasciato indietro e non se n’è saputo più nulla. Per mesi – e poi ancora in occasione dell’uscita di ogni nuovo film – io e la mia amica abbiamo parlato e confabulato sull’universo tolkieniano: eravamo entrambe innamorate di Viggo Mortensen e trovavamo scialba, difficile da tollerare, l’Arwen di Liv Tyler.
Il signore degli anelli è stato parte integrante, chiave di lettura e metafora della nostra amicizia. Il percorso di crescita di Frodo è stato un po’ anche il nostro. Pochi mesi fa – o forse è già passato qualche anno, non potrei dirlo con sicurezza – ho saputo che aveva una brutta influenza e le ho scritto per sapere come stava. Mi ha risposto che stava facendo una maratona in solitaria con i film tratti dal Signore degli anelli, versione integrale. È stato come tornare a casa, rendersi conto che, in fondo, anche se siamo diventate grandi, non siamo ancora uscite dalla Terra di Mezzo.