Suicidio
di Édouard Levé
Bompiani,
2008
pp. 126
€ 14,00
Traduzione di Sergio Claudio Perroni
1^ edizione originale: 2008 (Suicide)
Non si può entrare in Suicidio alla leggera, dedicargli brandelli di tempo. Bisogna
trovare il clima giusto, prenderlo sul serio, immergervisi trattenendo il
respiro e arrivare fino in fondo prima di riemergere al mondo - la lunghezza lo
consente. Bisogna soprattutto sospendere il (pre)giudizio, cercare di non farsi
condizionare da quel che già si sa a proposito del libro. Ma procediamo con
ordine.
Un io narrante identificabile
con l’autore si rivolge direttamente a un tu, un caro amico che vent’anni prima
ha deciso di togliersi la vita. Il testo inizia con il racconto di questa morte
inspiegabile: un sabato d’estate un giovane uomo esce di casa con la moglie per
andare a giocare una partita di tennis. Con una scusa banale – ha dimenticato
la racchetta, dice – rientra in casa, scende nella sua taverna e si spara in
bocca con un fucile precedentemente predisposto. Ha lasciato aperto sul tavolo
un albo a fumetti recante il suo ultimo messaggio, ma la moglie sconvolta lo ha
fatto cadere a terra, perdendo il segno e con questo ogni possibile significato
nascosto.
Il tono generale
della narrazione vuole essere distaccato, le frasi sono lapidarie, essenziali,
ma l’apostrofe al destinatario crea immediatamente un drammatico effetto di
vicinanza emotiva, che cresce nel momento in cui il lettore ricorda che, dieci
giorni dopo aver consegnato il manoscritto, Levé stesso, all’età di quarantadue
anni, si è impiccato. Per questo il volume
viene letto il più delle volte come prodromo e compimento dell’opera d’arte
estrema e radicale che, nell’ottica dell’autore (o nell’interpretazione che ne
ha dato la critica), avrebbe dovuto essere il suicido vero e proprio. La
lettura, tuttavia, indica una complessità maggiore di quanto già non suggerisca
questo gioco di specchi.
Ad un primo livello
di analisi, non si può negare che un forte senso di fascinazione traspaia tra
le righe, che spesso ritraggono il suicidio come un atto insensato ma liberatorio,
liberatorio proprio perché insensato.
Il pericolo è quello di ricadere in un’apologia della morte giovanile e
autoindotta, di credere che sia questa a dare un vero senso alla vita, propria
e altrui (“Morto, mi rendi più vivo”, p. 13, o ancora “Il tuo suicidio rende
più intensa la vita delle persone che ti sono sopravvissute”, p. 28).
Eppure, alternate
alle riflessioni sul trapasso, emergono dal testo altrettante osservazioni su
un’esistenza condotta in una seppur nevrotica pienezza. L’immagine del defunto
viene ricostruita per accumulo progressivo di dettagli, che raccontano una
persona complessa, a tutto tondo, amante a suo modo di quella vita che ha
lasciato e di cui non si è mai sentita pienamente protagonista: lui progetta
vacanze immaginarie, corre a cavallo in mezzo alla tempesta, colleziona nomi
propri e frasi strane sentite per strada, balla da solo, legge i dizionari come
fossero romanzi, fa del suo fumare un gesto artistico. La stessa scelta e le
modalità del suicidio ne rivelano la determinazione e la fermezza: “il tuo
suicidio è stato un’azione a effetto inverso: una vitalità che produce la
propria morte” (p. 24). La ricostruzione è tanto profonda che, poco alla
volta, sorge il sospetto che l’autore non stia parlando del suo amico quanto di
se stesso. O piuttosto che, nel descrivere il defunto nella sua vitalità
inesaurita e inesauribile nonostante la morte, stia prospettando il proprio
stesso destino.
Il suicidio viene descritto
come un atto che “ribalta” la biografia, la riscrive partendo dalla fine invece
che dall’inizio, la ammanta di una cifra funerea quando forse non ce ne sarebbe
motivo. Conoscendo la passione dell’autore per i giochi metatestuali, si può
leggere in questa considerazione un invito alla prudenza critica. Molte
recensioni hanno infatti posto l’accento sull’apatia esistenziale e sulla
depressione che trasparirebbero dal ritratto del suicida, ma l’impressione è
che questa sia una rilettura a posteriori, condizionata dal titolo del romanzo
e dalla consapevolezza del drammatico gesto compiuto dal suo protagonista, più
che dalle parole con cui Levé lo presenta.
La stessa
strutturazione frammentaria e apparentemente casuale della narrazione è in
realtà perfettamente motivata, dal momento che la vita non procede seguendo un
ordine logico e il ricordo si costruisce per aggregazione sommaria di dati:
Un dizionario somiglia al mondo più di un romanzo, poiché il mondo non è una sequenza coerente di azioni bensì una costellazione di cose percepite. […] Descrivere la tua vita seguendo un ordine sarebbe assurdo: io mi ricordo di te a caso. Il mio cervello ti resuscita per dettagli aleatori, come pescando biglie da un sacchetto. (p.37)
Anche il suicidio, in più punti rievocato e
vagheggiato, non viene posto come modello aprioristicamente positivo. Levé ne
mostra anzi le ambiguità, le problematiche, e lo fa soffermandosi sulle conseguenze
negative che – solo presentite da chi se ne va – ricadono su chi resta e non
riesce a passar oltre, su chi non può e non desidera comprendere; soffermandosi
dunque sulla straziante immagine del padre che cerca ossessivamente di
identificare l’ultimo messaggio perduto del figlio, o sulla madre che non può
smettere di piangere. Levé constata che, per il futuro suicida, queste
implicazioni familiari ed emotive non contano quanto il desiderio del proprio
trapasso, e accetta così di presentare il suicidio come un atto di supremo e
imperdonabile egoismo. A suggello e complemento di questa conclusione, che
tradisce in parte i contenuti del romanzo, viene proposta una sequenza di
terzine attribuite all’amico defunto, che riconducono un testo solo
apparentemente dialogico (perché naturalmente risposta non può essere data
dall’interlocutore all’io narrante) alla centralità divagante e monologica dell’io
suicida:
La vita mi è proposta
Il nome mi è trasmessoIl corpo mi è imposto...Il tempo mi mancaLo spazio mi bastaIl vuoto mi attira...La felicità mi precedeLa tristezza mi segueLa morte mi aspetta.
Carolina Pernigo