di Miguel Bonnefoy
66thand22nd, 2015
trad. di Francesca Bononi
pp. 116, € 16 (ebook € 8,49)
La prima cosa che colpisce di questo breve libro è senza dubbio la bellissima edizione: grafica di copertina e illustrazioni ad evocare il mondo immaginato da Bonnefoy in questo romanzo.
Immediatamente dopo, la storia: onirica, avventurosa, così profondamente costruita intorno a quel realismo magico che è stata a lungo la cifra stilistica di tanta letteratura sudamericana e che il giovane autore di questa storia riprende con successo.
Nato a Parigi nel 1986 da genitori sudamericani (il padre cileno, la madre venezuelana), Bonnefoy ha passato l’infanzia diviso tra Francia e America Latina, due realtà e culture estremamente diverse ma entrambe in qualche modo fondamentali per la sua formazione come scrittore. In lingua francese questo breve romanzo viene scritto, in lingua spagnola non è tanto difficile immaginare potrebbe essere nato nella mente dell’autore. Ed è un prestigioso premio letterario francese, il Prix Edmée de la Rochefoucauld per l’opera prima, che Bonnefoy si è aggiudicato, conquistando con il suo romanzo d’esordio pubblico e critica. L’opera, uscita in Francia ad inizio anno, è stata presto tradotta in italiano (dalla casa editrice indipendente 66thand2nd, di cui non mi stancherò mai di lodare l’attenzione nella cura della grafica di questo libro) suscitando un certo interesse anche tra i lettori nostrani, che potranno presto incontrare il suo autore in un ricco tour nell'ambito del Festival della Narrativa Francese (a Roma, Padova, Piacenza, Pisa e Venezia: qui tutte le date), di cui CriticaLetteraria è media partner.
Nato a Parigi nel 1986 da genitori sudamericani (il padre cileno, la madre venezuelana), Bonnefoy ha passato l’infanzia diviso tra Francia e America Latina, due realtà e culture estremamente diverse ma entrambe in qualche modo fondamentali per la sua formazione come scrittore. In lingua francese questo breve romanzo viene scritto, in lingua spagnola non è tanto difficile immaginare potrebbe essere nato nella mente dell’autore. Ed è un prestigioso premio letterario francese, il Prix Edmée de la Rochefoucauld per l’opera prima, che Bonnefoy si è aggiudicato, conquistando con il suo romanzo d’esordio pubblico e critica. L’opera, uscita in Francia ad inizio anno, è stata presto tradotta in italiano (dalla casa editrice indipendente 66thand2nd, di cui non mi stancherò mai di lodare l’attenzione nella cura della grafica di questo libro) suscitando un certo interesse anche tra i lettori nostrani, che potranno presto incontrare il suo autore in un ricco tour nell'ambito del Festival della Narrativa Francese (a Roma, Padova, Piacenza, Pisa e Venezia: qui tutte le date), di cui CriticaLetteraria è media partner.
Ma veniamo al romanzo e, senza troppi giri di parole, confesso che è riuscito a conquistarmi nonostante non sia mai stata troppo incline a questa tipologia di narrativa: quel realismo fantastico dove leggenda e folklore, magia e realtà si intrecciano, entrambe verosimili, non è sinceramente del tutto nelle mie corde; eppure qualche volta capita che un romanzo di questo tipo riesca inspiegabilmente a conquistarmi. Nel caso specifico de Il meraviglioso vaiggio di Octavio poi, la capacità dell’autore di concentrare nello spazio breve di questa sua prima opera una storia così intensa, umana e universale allo stesso tempo, legandola ad un uso sapiente del linguaggio – e qui, doveroso sottolineare la bravura del traduttore – non poteva certo lasciarmi indifferente.
Cuore del racconto sono appunto le avventure del protagonista, Octavio, uomo robusto e taciturno che vive nella bidonville di San Paolo del limone, una piccola, povera cittadina venezuelana che deve il suo nome al miracoloso rimedio contro la peste che ad inizio Novecento stava flagellando il Paese; un rimedio casalingo scoperto per caso – o meglio, secondo la credenza locale, per intercessione divina – grazie al quale gli abitanti sono riusciti a superare quel momento tanto critico. Nel luogo dove il divino ha indicato il mezzo per combattere la peste – scoprirete da voi con quale poco ortodossa azione – è stata quindi costruita una Chiesa, che sarà anche uno dei luoghi centrali di questa storia. Don Octavio si diceva, protagonista assoluto del romanzo, uomo semplice e di pochissime parole, che nasconde un segreto: è analfabeta, totalmente incapace di leggere e scrivere. Una debolezza che non ha mai rivelato a nessuno, troppo forte la vergogna per la sua mancanza, e che in qualche modo ha contribuito ad allontanarlo sempre di più dal mondo, di cui non fa mai parte fino in fondo. Scambia poche parole di cortesia con le persone che incrociano la sua strada, imparando presto a badare a sè stesso ed a limitare al minimo le situazioni che potrebbero rivelare il suo segreto. Vive di espedienti, inventandosi un modo per nascondere la sua debolezza:
«Cosa c’era scritto sulla ricetta?» chiese fredda la farmacista, abituata a giudicare in fretta gli uomini. Don Octavio si profuse in mille giustificazioni. Con gesti goffi disse che non se lo ricordava, cercando nel pulviscolo nero la traccia di una lettera. Quindi fece il nome del giovane medico ma la donna, in modo brusco, rispose che non c’era. [...] La farmacista gli allungò una penna e un foglio di carta. «Lo scriva lei, señor ». Quella frase in un attimo gli riportò alla mente anni e anni di dispiaceri. Octavio sentì un vecchio dolore annidarsi nel suo cuore. Allora lentamente, ripetendo il gesto di tutta una vita, levò la fasciatura e con voce sorda disse: «Mi sono ferito la mano. Non riesco a scrivere. Mi può aiutare?»
In quella mano - che ogni volta in cui potrebbe correre il rischio di dover scrivere Octavio prontamente ferisce per potersi nascondere dietro la scusa del dolore ad impedirgli di reggere la penna - c’è tutta la solitudine e la disperazione di un uomo incapace di chiedere aiuto per cambiare la sua condizione. E c’è anche, nell’altezzosa scontrosità di certe persone, un sentimento di indifferenza ed ottusità maligna che ancora purtroppo opprime il mondo.
Nessuno impara a dire di non saper né leggere né scrivere. È qualcosa che non si impara, che rimane in una profondità priva di struttura, di luce. È una religione che non esige confessione. Eppure Don Octavio, scavato nel suo pugno, aveva sempre mantenuto il segreto, fingendo un’invalidità che gli risparmiava la vergogna.
Poi, inaspettatamente, qualcuno riesce a vedere davvero dietro la ritrosia di Octavio, i suoi silenzi spezzati da frasi brevi, gli sguardi sfuggenti e quel gesto ripetuto tante volte. Qualcuno così diverso da lui, per estrazione sociale, spirito, educazione, che intuisce il segreto che Octavio si porta dentro e, senza porgli domande o dare giudizi, lo apre al mondo delle parole. Venezuela, questa donna eccentrica che porta un nome tanto patriottico, entra per caso – e per un momento troppo breve - nella vita di Octavio e la stravolge per sempre. Attrice di Maracaibo, ipocondriaca, malata di insonnia cronica, ritirata ad una comoda vita borghese, Venezuela accoglie l’uomo nella sua casa e con pazienza gli insegna a leggere e scrivere. Le ore trascorse insieme, le parole che lentamente iniziano a fuoriuscire dalla mano e dalla bocca di Octavio liberando forse per la prima volta un istintivo amore verso la letteratura, l’arte, la parola, avvicinano sempre più i due, che finiscono quindi per innamorarsi.
Pagina dopo pagina la storia di Octavio raccontata da Bonnefoy appare come allegoria della storia di un Paese intero, che trova voce in quel genere letterario ad esso più consono e la narrazione si fa sospesa tra realtà e sogno, avventuroso viaggio alla scoperta di sè e del mondo, di una realtà bizzarra al limite dell’irrazionale, povera e fiera. è un atto d'amore verso la letteratura e le parole, finalmente libere di uscire. In Octavio c’è inespresso ma chiaramente udibile il desiderio di riscatto da una vita fino a quel momento subita, per colpa dell’ignoranza, della vergogna, dell’indifferenza, delle scelte sbagliate e che ora trova la propria dimensione ideale che, per quanto irrazionale, è l’epilogo ideale di quest’avventura, onirica e fuori dal tempo.
di Debora Lambruschini