Corbaccio, venerdì 23 ottobre 2015. Devo ammettere di essere rimasta piacevolmente sorpresa. Dalla lettura di questo libro, All’aria aperta, racconto dell’infanzia perduta del comico e presentatore tedesco Hape Kerkeling alla seconda prova come scrittore (qui la mia recensione), e dall’incontro con lo stesso, venerdì pomeriggio in casa editrice Corbaccio, per la presentazione in anteprima di questo suo lavoro. Piacevolmente sorpresa, dicevo, perché devo ammettere di aver aperto il libro con qualche perplessità, mentre alla fine la lettura si è rivelata interessante; e sorpresa di essermi trovata davanti un uomo divertente – certo, questo era piuttosto prevedibile visto che è un celebre comico –, intelligente, sensibile, pronto a discutere con una manciata di blogger presenti all’evento a porte chiuse con generosità, pazienza, sensibilità. E, molto semplicemente, la prima sorpresa è stata anche scoprire che Kerkeling parla un italiano perfetto! Senza bisogno di interprete, ha parlato in maniera assai fluente, rivelandoci che in realtà da molto tempo la sua vita si divide tra Germania e Umbria, dove trascorre nove mesi l’anno in una casa di proprietà e dove concretamente questo libro – la cui traduzione italiana è la prima in Europa – è stato scritto.
Se il suo italiano fluente era inaspettato, devo ammettere che lo è stato anche trovare, nella lettura e durante l’incontro, un racconto abilmente equilibrato tra momenti di intensa drammaticità ed altri più lievi, che rendono quindi il testo scorrevole, nonostante il tema centrale di questa sorta di memoir ruoti intorno al suicidio della madre, malata di depressione.
Scrivendo, Kerkeling rivela di aver messo la giusta distanza da quel passato doloroso. La scrittura, quindi, ancora una volta come atto terapeutico, che nel caso del comico tedesco coincide con la decisione dopo trent’anni di chiudere la carriera di comico e uomo di spettacolo e fare i conti, una volta per tutte, con i fantasmi del passato.
Proprio lui, un uomo abituato a celarsi dietro le maschere dei suoi personaggi, decide di mettersi completamente a nudo, mostrandosi sincero e vulnerabile. Lo è sulla pagina, lo è qui di fronte a noi.
«Scrivere per tornare alle mie radici e al modo essenziale di presentare la mia arte», rivela Kerkeling, e questo mettersi a nudo è stato difficile in Germania, dove «senza rete» si è svelato a quel pubblico cui di solito era abituato invece a presentarsi dietro le maschere.
Un salto nel vuoto, ma assolutamente necessario. Ed importante l’appoggio delle persone rimaste, che hanno letto parti del libro, lo hanno consigliato e che anche grazie ad esso sono riuscite a ritrovare una cronologia, un modo per mettere ordine al caos di quei momenti drammatici.
Così come sono state fondamentali per diventare l’uomo che è oggi, le persone che hanno fatto parte della sua vita di bambino qui raccontata; nelle parole di Kerkeling traspare l’emozione nel ricordare soprattutto quelle donne straordinarie che lo hanno accompagnato, ognuna in modo diverso, nel suo percorso e senza le quali niente di quello che è oggi sarebbe stato possibile. Il ricordo corre immediatamente alle nonne, Bertha, la nonna paterna che lo ha cresciuto dopo la morte della madre e che, confessa Kerkeling, è stata la persona più importante della sua vita, che sente sempre vicina, presente, nonostante non sia più in vita; e Anne, la nonna materna, così eccentrica, forte, determinata, un personaggio davvero romanzesco. Tutti loro lo sono agli occhi di un osservatore attento come Kerkeling e non è da escludere che un giorno qualcosa potrà essere trasposto in un possibile romanzo, tanto è stata forte la loro influenza.
Personaggi femminili resi forti dalla guerra, che mettono in ombra gli uomini di questa storia, spesso silenziosi, in disparte, un poco schiacciati da queste donne ingombranti. Uomini con le loro storie di dolore, solitudine, incapacità di affrontare la perdita, che si riflettono nei silenzi, nella ritrosia, nella scelta di non parlare mai apertamente delle atrocità della guerra di cui sono stati testimoni o di quale sia stato il costo emotivo per un figlio che non ha visto il padre per dodici anni, deportato in un campo di prigionia. Il nonno paterno, che è stato in un campo di concentramento, non ha mai parlato della sua esperienza, solo una volta brevemente ha accennato a quegli anni terribili. Ed è interessante leggere e sentire nelle parole di Kerkeling come quel momento drammatico della storia recente abbia avuto ancora conseguenze, dirette e indirette, nella vita quotidiana nella Germania degli anni Settanta.
Ma cuore della storia non può che essere la madre, Margret, donna fragile, malata di depressione in una realtà in cui «non esisteva ancora una parola per definire quel male di vivere, figuriamoci cercare una cura». Il ricordo di quei momenti bui è molto intenso, traspare dalle pagine come dalle parole di Kerkeling qui di fronte a noi. La cura oggi è più accessibile, mentre allora per la vergogna molto spesso non si voleva affrontare il problema; anche se, nota, molte volte anche oggi questo problema viene ignorato all’interno del nucleo famigliare, per paura, vergogna, incomprensione o incapacità di comprendere. E di quella notte, in cui sua madre si è tolta la vita, oggi nella mente di Kerkeling l’immagine che immediatamente appare è solo buio.
Nonostante tutto, come si accennava, la storia che l’autore racconta è capace anche di fondamentali momenti di leggerezza, di risate, episodi curiosi, di affetto e semplicità quotidiana. Non è un libro cupo, come si potrebbe essere portati a pensare, come non è certo un dialogo cupo questo con Kerkeling. C’è ottimismo, tantissimo, che traspare da ogni parola, e che sembra essere una costante nel suo modo di vedere la vita. La stessa scrittura è motivo di gioia, anche quando è difficile e sofferta, eppure in essa riesce a trovare immensa gioia. E come scrittore, ci rivela divertito, ha moltissimi rituali di lavoro, soprattutto per arrivare al momento ideale, all’ispirazione di quella prima parola da cui poi prendere il via; poi, una volta finito, il libro va lasciato a decantare, per raggiungere la giusta distanza prima di poter giudicare a mente più lucida quanto ha riversato sulla pagina. Ed essere anche un critico molto severo di sé stesso.
Se poi raccontare questa storia, leggerla, aiuta in qualche modo a mettere ordine in quel caos, venire a patti con i demoni del passato, la scrittura ha davvero assolto alla sua funzione terapeutica.
Debora Lambruschini e Hape Kerkeling |
di Debora Lambruschini
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