di John Fante
traduzione di Maria Giulia Castagnone
Marcos y Marcos, 1994 (1939)
pp. 186
€ 13
La vicenda è nota ma vale la pena ricordarla. Nel 1978 John Fante è devastato dal diabete e per questo subirà pesantissime conseguenze alla vista e agli arti inferiori. È da poco uscito “La confraternita dell’uva” ma questo non ha spostato di una virgola la sua esistenza: è uno scrittore praticamente dimenticato.
Quando a un certo punto, Charles Bukowski, all’apice della fama mondiale, impone al suo editore, la Black Sparrow Books, di ristampare i libri oramai introvabili di John Fante, a cominciare da “Chiedi alla polvere”, romanzo del 1939 che risorge dalle ceneri come un’araba fenice. L’iniezione di fiducia ottenuta in maniera piuttosto casuale, come ci racconta lo stesso Bukowski nella introduzione al romanzo, riporta Fante, figlio di poverissimi immigrati abruzzesi, alla scrittura. Alla moglie detterà la sua ultima opera mentre la sospirata ristampa di “Aspetta primavera, Bandini” precederà di poco la sua morte. Così John Fante non farà in tempo ad assistere all’enorme ondata di successo – ma mi verrebbe da dire: affetto – che arriva ai giorni nostri.
Al di là del fatto che uno come Bukowski, che amo poco, si sia reso protagonista di un gesto meritorio, con John Fante ci troviamo dinanzi a un artista e a un alter-ego. Ora, parlando di giochetti di questo genere il primo che mi viene in mente è sempre il binomio Hugo Pratt-Corto Maltese ma non c’è dubbio che l’osmosi Fante-Bandini è di quelle avvincenti.
Arturo Gabriel, o Arturo Dominic, Bandini nasce con “Aspetta primavera, Bandini” in cui è ancora un ragazzino, torna con “La strada per Los Angeles” dove è già cresciutello, irrompe con i suoi sogni, i suoi racconti e i suoi amori in “Chiedi alla polvere”, e fra gli amori spicca quello per la cameriera messicana Camilla Lopez, e tramonta con “Sogni di Bunker Hill”. Chi vuole confrontarsi con l’intera saga non ha che da seguire questa lista di libri. Confesso che, catturato dalla popolarità cresciuta a dismisura a seguito del recente film omonimo, dove Arturo Bandini è interpretato da Colin Farrell, sono partito con “Chiedi alla polvere” e qui mi fermerò. Ma non perché non mi sia piaciuto. Certo, non è «un miracolo, grande e inatteso» o «come aver trovato l’oro nell’immondezzaio» – Bukowski dixit – diciamo che ad Arturo Bandini vuoi bene perché è un giovane sanguigno, vanitoso, irritabile ma anche sensibile e autentico. È squattrinato e vive in fatiscenti camere in affitto al limite dell’indigenza ma gli basta pensare al luminoso futuro da scrittore che l’attende. Tuttavia non stiamo parlando del classico illuso che può permetterselo perché ha un pizzico di talento, la diagnosi è più viscerale e qui concordo con Bukowski che usa, anzi abusa di «viscere» riferendosi a Fante.
Bandini infatti vuole essere riconosciuto più che per quello che è, d’altronde deve ancora diventarlo, per quello che si sente di essere, ovvero il predestinato a fregiarsi del titolo di romanziere del secolo. E questa sua certezza di raggiungere l’empireo della letteratura mondiale lo scaraventa in un mare di contraddizioni: la sua sfrenata presunzione fa pendant con una paralizzante timidezza. Così quando si innamora follemente di Camilla Lopez e la ragazza non cade immediatamente ai suoi piedi finisce per dare vita a un corteggiamento disastroso. Camuffati i suoi sentimenti dietro un altezzoso distacco, come ritiene che gli si addica, apostrofa la ragazza come «sudicia messicana». Camilla, per tutta risposta, preferirà andare a vivere tra la polvere del deserto, lasciandolo solo, a chiedersi, ecco il titolo, invero bellissimo, dove sia scappata.
Il lamento, il vuoto silenzioso che è costretto ad affrontare Arturo Bandini, un lupo che ulula dinanzi all’abbandono, è la solitudine dell’artista che si barcamena in mezzo a una forbice sempre troppo larga: da una parte ciò che piace a Bukowski, le viscere e la vivisezione senza sconti del reale, dall’altra la conciliazione del talento irrispettoso con la prospettiva di una vita quasi borghese, con perfino un gatto domestico ad allietare una coppia rasserenata. Non è un caso che l’ispirazione a scrivere a Bandini a un certo punto venga da un’altra donna, Vera Rivken, che non ama e sulla quale può affondare, artisticamente, i colpi. Camilla Lopez è colei che dovrebbe usufruire di questa ispirazione mentre Arturo, lo sogna a occhi aperti, legge i suoi capolavori al tepore di un caminetto. Ma quel sogno evapora dietro rottami fetenti e la casa da quattro soldi di un tizio che nel romanzo incrocia i destini di entrambi i protagonisti.
Non è che manca il materiale in Fante. Se non mi iscrivo al partito degli adoratori, tanto meno a quello dei denigratori, che sono stati tanti a causa delle sue posizioni politicamente scorrette – Fante non mascherava, anzi rivendicava il suo anti-comunismo, la sua indifferenza per le sorti della guerra, «… i discorsi di Hitler. Sciocchezze! Date ascolto a me, invece, che ho qualcosa da dirvi sul mio libro…», l’idiosincrasia per gli intellettuali di sinistra, collaborava con riviste della destra conservatrice – è perché questo materiale resta a uno stato… grezzo. Voi date una catapecchia ai margini del deserto e una donna stupenda in fuga verso chissà dove a Cormac McCarthy e ci tira fuori roba da stordire, oppure un hotel malandato con ospiti quantomeno equivoci e i fratelli Cohen ci tirano fuori “Barton Fink”. Questo mi pare il succo.
Ah, dimenticavo, le mie considerazioni possono essere tranquillamente rovesciate anche perché Jonh Fante riversava le sue più grandi ambizioni e aspettative su “La strada per Los Angeles”. Che pare sia in effetti roba riuscita. Vi passo il testimone e l’incombenza.
Marco Caneschi