di Mary Miller
Clichy, 2014
Traduzione italiana di Sara Reggiani
pp. 260
€ 15,00
Se tutte le famiglie felici si
somigliano e ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo,
Mary Miller sembra dirci però che nessuna famiglia è molto diversa
dalle altre, nemmeno quelle apparentemente più strane. E,
aggiungiamo noi, che anche tutte le adolescenze sono simili, persino
quelle costrette a confrontarsi con la fine del mondo.
Last days of California racconta
il viaggio in auto di una famiglia americana (marito, moglie e due
figlie) che da Montgomery, in Alabama, vuole raggiungere la
California dove, assieme ad altri eletti, assisterà alla Seconda
Venuta del Salvatore, Nostro Signore Gesù Cristo. Una famiglia
disfunzionale e incentrata sul fervore religioso del padre, ma
percorsa da piccole e grandi divisioni tutt’altro che insolite, a
partire da quelle generazionali: in un contesto come quello in cui
vivono, infatti, alle figlie basta essere adolescenti per porsi in
contrasto alle aspettative parentali. Tra le sorelle, però, esistono
differenze: Elise, la maggiore, con la benedizione/maledizione di un
corpo perfetto, è totalmente a suo agio nella contemporaneità e si
ribella in maniera aperta ed esteriore negli atteggiamenti, nel modo
di vestirsi, nel relazionarsi con la religione del padre; è anche
incinta, ma ovviamente nessuno lo sa tranne la sorella minore Jess.
E’ quest’ultima la voce narrante del libro, nonché la vera forza
di un romanzo centrato totalmente sul suo punto di vista: riflessiva
e più propensa a comportarsi come i genitori si aspettano, la
ragazzina non prova gusto a disobbedire ed anzi ci tiene al loro
giudizio. Jess però osserva i parenti con distacco, così come
mantiene le distanze dal mondo che le scorre accanto, non perché si
crede superiore ma, al contrario, perché prova una continua
sensazione di inadeguatezza, si sente un’irrimediabile imbranata e
le è impossibile prendere la vita con la disinvoltura di Elise, per
la quale infatti nutre sentimenti contrastanti: attaccamento,
invidia, biasimo.
Perché non sento le cose come le sentono gli altri? Non è che non m’importa della gente. È solo che non riesco a percepirla come reale. Conficco le unghie nel palmo della mano.
ho letto da qualche parte che l’incapacità di provare qualcosa per gli altri è sintomo di malattia mentale, ma io non mi sento mentalmente malata.
Lo scopo religioso del viaggio è un
non detto che aleggia su tutti i componenti della famiglia. Non è
reticenza, è solo che la loro vita quotidiana è fatta di cose
concrete come gli spostamenti e la ricerca di fast food dove mangiare
e di posti dove dormire. A dispetto dell’evento epocale a cui si
apprestano ad assistere, i quattro personaggi risultano
indistinguibili da una tranquilla famigliola in vacanza.
Per chi il relativismo ce l’ha
nel sangue, come le generazioni cresciute in un’epoca in cui Dio è
morto, Marx è morto e nessun tentativo, per quanto blando, di
guardare oltre l’hic et nunc
si sente benissimo, è semplicemente impossibile concepire qualcosa
di assoluto, figurarsi crederci.
La mia più grande paura è che le cose vadano avanti all’infinito, senza mai fermarsi. L’idea che qualcosa duri «per sempre» mi terrorizza, anche se fossi in Paradiso e fosse tutto bellissimo. Prima o poi dovrà pur finire. E inizierà qualcos’altro.
Quando Jess si imbatte in
qualcosa di simile ad un sentimento incondizionato, illimitato,
potenzialmente eterno e perciò stesso da lei percepito come naïf,
la reazione è di rifiuto: a volte, ad esempio, le sembra di provare
per i suoi genitori “un amore talmente intenso che non posso
far altro che rinnegare”. Come si
riempie il vuoto che la mancanza di fedi (nel senso più lato del
termine) crea? Con la nostalgia: le due teenager
vanno matte per i film anni ’80, un periodo in cui si poteva essere
ingenui e l’ironia non aveva ancora ucciso ogni innocenza.
D’altra parte la religione è
centrale in questa famiglia ed in qualche modo ne costituisce il
sottofondo, l’ambiente stesso in cui Jess si muove. Impossibile che
qualcosa, di questo credo, non sia entrato anche in lei, pur filtrato
dai dubbi e dalle domande.
Vorrei tornare indietro a quando non ci pensavo nemmeno, quando andavo in chiesa e a catechismo la domenica, distribuivo gli opuscoli e non mi passava neanche per la testa di dubitare. Ora è tutto un dubbio, all’improvviso, e vorrà pur dire qualcosa.
Le convinzioni del padre, dunque,
condizionano l’esistenza degli altri personaggi, ma non aspettatevi
un esagitato fondamentalista cristiano o un redneck becero;
vista da fuori (lo ribadiamo), la vita di Jess e dei suoi parenti non
si differenzia molto da quella delle altre persone, la religione è
sì un’imposizione che limita ma non presenta mai il suo volto più
autoritario e totalizzante, risultando piuttosto una delle tante
regole di vita che da sempre i genitori si sforzano di dare ai figli.
Nell’America di oggi, credere nel ritorno di Cristo è solo un po’
più stravagante di altri tipi di educazione.
Una famiglia problematica ma nella
norma, quindi, con un padre troppo concentrato sulla sua missione per
occuparsi degli altri, una madre ex cattolica che è più infelice di
quanto ammetta, una figlia che si ubriaca con gli sconosciuti e poi
piange in bagno ed un’altra che si sente goffa e ha problemi nel
relazionarsi con gli altri. Se Elise ha un ragazzo ed uno stormo di
spasimanti, Jess ha a malapena delle amiche, spaventata dal contatto
con le persone: “Non so come si possa volere così
disperatamente una cosa e al tempo stesso fare di tutto per non
averla”. Tutti hanno la loro dose di solitudine, di rimpianti e
di speranze frustrate. E sì che il messaggio di Gesù, quel
Salvatore che inseguono nel loro assurdo vagare per l’America,
sarebbe chiaro e semplice, a volerlo applicare: amatevi l’un
l’altro, e nulla più.
Non è la prima volta che succede, sai? Ogni generazione ha predetto la fine del mondo. Siamo impotenti di fronte alla guerra, alla disoccupazione, alla dipendenza dalle droghe o alla povertà ma possiamo prevederne la fine, e questo rende tutto meno spaventoso.
Mary Miller ha una scrittura asciutta,
perfetta per dar voce a Jess: l’autrice si cala completamente nella
parte e per tutto il libro sembra davvero di leggere i pensieri di
una quindicenne confusa, ingenua e contraddittoria, sospesa tra
apatia e pulsione verso l’esterno, momenti infantili e fascino del
proibito, lo sguardo sempre attento e preciso nel descrivere se
stessa e chi le sta attorno. Il suo modo di approcciarsi agli altri e
alla vita commuove, e vorresti non staccarti mai da questa ragazza
alle prese per la prima volta col mondo (enorme, sconosciuto, pieno
di attrattiva e di minaccia), così come si cerca di mantenere sempre
il contatto con quella parte di noi che sapeva fantasticare e provava
stupore di fronte al creato e agli esseri umani. L’adolescente Jess
agogna la novità, qualsiasi novità, come viatico per una vita
diversa da quella che conduce quotidianamente e che le appare
insoddisfacente; ci vorrà del tempo per capire che è un’illusione,
che ci attirano le cose che non cogliamo e nell’esatto momento in
cui poi le viviamo perdono gran parte della loro attrazione, che il
disagio interiore è un compagno difficile da superare e che alla
lunga anche le possibilità inizialmente più eccitanti diventano
routine uguale alle abitudini passate. Per questo si fa il tifo per
Jess, perché sta combattendo la battaglia che ha coinvolto tutti
noi, quella tra l’ingenuità, il principio di realtà e la capacità
di conservare il proprio sguardo pur portando sempre più esperienze
sulle spalle.
L’Apocalisse, alla fine, non arriva.
Il lettore, totalmente coinvolto dalla prosa di Miller e dal suo
personaggio vivo ed indimenticabile, attende sempre l’esplosione
della tensione che però non giunge mai: ci si aspetta che la
delusione per la mancata Seconda Venuta (e il conseguente fallimento
della propria fede) deflagri in maniera eclatante, distruggendo
psicologicamente il padre, e invece al mattino seguente tutto
riprende normalmente, come se non fosse successo nulla (pessima
scelta di parole: in effetti non è successo proprio nulla, il mondo
non è sparito!); Jess condivide la frustrazione del lettore quando
si accorge che, una volta che finalmente ha perso la verginità, non
si sente per nulla cambiata, è la stessa ragazzina insicura che era
prima di fare l’amore. Sembra proprio che nel ventunesimo secolo
non ci sia la possibilità di incontrare l’Assoluto, la vita
trascorre senza scossoni, tra una piccola delusione e un incontro
casuale in un bar. Ti svegli un mattino, con un sapore dolceamaro in
bocca, e devi solo sperare che tutto ciò che ti ha portato dove sei
abbia lasciato un segno in te senza graffiarti troppo, perché
crescere e accumulare esperienze significa perdere a poco a poco
l’ingenuità, ma anche ampliare se stessi, conoscersi e conoscere
gli altri, nelle infinite possibilità che offre l’universo.
li ascolto parlare e ridere, sapendo che non farò mai parte di quel mondo. Me ne starò sempre in disparte, a preoccuparmi delle espressioni che fa la mia faccia, di cosa pensa la gente di me. A osservare le debolezze e i difetti degli altri, le cosce grosse, i denti storti e l’acne, la loro mancanza di sicurezza, le loro paure. Penserò sempre il peggio delle persone e questo mi impedirà di avvicinarmi a loro, perché non sono in grado di accettare me stessa.
Ma allora che deve fare Jess per rimpere il vetro che le impedisce di godersi le cose come le
sembra che facciano tutti gli altri? “E’ l’animo che devi
cambiare, non il cielo sotto cui vivi” le risponderebbe Seneca.
È la vita, diciamo noi, con le sue durezze, e Jess dovrà
affrontarla accettando i fallimenti, come suo padre e sua madre, come
Elise, come tutti. Occorre sempre trovare un modo per ricominciare,
qualcosa in cui credere, per quanto fragile e perituro. Perché non
ci sarà nessuna fine del mondo a salvarci dalla sfida di vivere.
Nicola Campostori