L'ultimo arrivato
di Marco Balzano
Sellerio, 2014
pp. 212
€ 15
Comunque non è che sono emigrato così, da un giorno all’altro. Non è che un picciriddu piglia e parte in quattro e quattr’otto. Prima mi hanno fatto venire a schifo tutte cose, ho collezionato litigate, digiuni, giornate di nervi impizzati, e solo dopo me ne sono andato via. Era la fine del ’59, avevo nove anni e uno a quell’età preferirebbe sempre il suo paese, anche se è un cesso di paese e nient’affatto quello dei balocchi.
Ricordo una lezione di storia,
alle elementari. La maestra ci parlò del popolo dei Dori, una popolazione indoeuropea
che aveva invaso la penisola greca e causato, tra le altre cose, il crollo
della civiltà micenea. Alle nostre orecchie di bambini, una simile spiegazione
poteva solo richiamare alla mente immagini di barbari a cavallo che bruciavano
e saccheggiavano. La maestra passò poi a farci esempi di altre invasioni nel
corso dei secoli, ammonendoci che la Storia spesso di ripete.
Solo con il tempo e con il
proseguire degli studi, ho realizzato che quella che veniva chiamata
“invasione” altro non era che un fenomeno di migrazione costante e che il
popolo “occupante” si era semplicemente inserito nelle trame della civiltà
preesistente.
"L’ultimo arrivato" è la storia di una migrazione e di un ricorso
storico: la migrazione in massa degli abitanti del Mezzogiorno italiano verso
le ricche ed industriali città del nord.
Nel tempo però, ho realizzato che a San Cono in tanti seguivamo la stessa dieta e allora mi sono messo l’anima in pace. Tutti, presto o tardi, ci siamo messi l’anima in pace. Un’acciuga? E un’acciuga sia! Da picciriddi non ci si demoralizzava mica così.
Ninetto Giacalone, detto
Pelleossa, fino a nove anni è vissuto d’acciughe. C’è poco da scegliere se
vieni da un paesino siciliano dove lavoro non ce n’è e anche mettere insieme
pranzo e cena è una scommessa non da poco. Quando poi, a fine 1959, la madre si
ammala e il padre prende sempre più a ragionare a forza di cinghia e vino
rosso, l’unica decisione possibile da prendere è quella di emigrare al Nord, a
Milano. Lì si può trovare un lavoro, fare il muratore, l’operaio; emigrare è
una sofferenza, ma è una sofferenza accettabile se non si vuole variare la
propria dieta. Così Ninetto prende il treno che arrampica verso Nord, stracolmo
e a fatica, quasi che la forza di gravità lo volesse tenere giù. Come tanti
prima di lui, all’età di nove anni deve
ingegnarsi per sopravvivere in una città dove di “terroni” e “napulì” ce n’è in
abbondanza. Da galoppino a muratore, da operaio per l’Alfa Romeo fino al
carcere, la sua voce di bambino disincantato, prima, e di adulto con una patina
di ingenuità, poi, Ninetto ci racconta la sua storia, che è poi la storia di
tanti come lui venuti al Nord con il miraggio di trovare l’Eldorado.
Quando si incomincia la lettura sembra
di trovarsi tra le pagine di "Cuore": ci sono tutti gli elementi. C’è la tragica
situazione di un arretrato paesino siciliano con fame, scarsità di lavoro e
poco cibo; c’è il maestro Vincenzo, punto di riferimento per il protagonista,
un uomo dalle spiccate simpatie comuniste che gira con una borsa di cuoio
consunta e fa imparare a memoria le poesie; manca forse un Garrone a nobilitare
la situazione, ma Ninetto, che vorrebbe diventare poeta e maestro elementare,
non avrebbe davvero sfigurato tra le righe di De Amicis. Anche il viaggio verso
Milano con il treno carico di migranti e speranze, avrebbe potuto essere uno
dei “racconti mensili” del maestro Perboni.
Quando l’azione si sposta a Milano, "Cuore" lascia spazio a quadri di Pellizza da
Volpedo. La situazione lavorativa durissima, la scarsità di alloggi decenti e
di semplici servizi sanitari e la discriminazione alla quale i “napulì” tutti,
senza distinzione di provenienza, sono sottoposti fa realizzare, al lettore e a
Ninetto, che Milano non è sicuramente la terra dove scorrono fiumi di latte e
miele.
Ninetto, che racconta con minuzia
e precisione tutta la sua vita quando oramai è vecchio e logoro e con una
condanna giudiziaria alle spalle, è un puro di cuore. All’arrivo a Milano,
tutto ha ancora una patina di fantastico: il tram senza un fanale gli ricorda
il gigante Polifemo, il “dormire alla luna” ovvero all’addiaccio, suona
romantico ed avventuroso. Quando viene chiamato “napulì” con disprezzo, non si
offende, perché crede che derivi dal fatto che ha un maglione con sopra
ricamata la lettera N di Napoleone. Non si intende di soldi e stipendio, ma
solo di baratti che faceva quando era al paese. Questa caratteristica non lo
abbandonerà mai, nonostante la vita di fatica e da “povero cristo” come la
definisce lui stesso: quando, da vecchio, si cimenta con la compilazione del CV
formato europeo riempie le voci come se stesse componendo un tema per il mai
dimenticato maestro Vicenzo. Per motivi diversi, sia a lui che al lettore si
stringe il cuore nel leggere queste righe perché il bambino di nove anni è
rimasto intrappolato e solo in potenza, nel corpo di un uomo ormai canuto.
Per Ninetto ormai, ricordare è
meglio che vivere. La sua storia viene messa sotto la luce, rigirata e
analizzata e lo sfondo, sia di personaggi che storico, resta sbiadito. C’è un
ricco mosaico di umanità intorno a lui: gli altri emigrati, dagli abruzzesi
socievoli e generosi ai calabresi musoni e lavoratori, i datori di lavoro che
sfruttano i napulì, i colleghi dell’Alfa Romeo in fermento sindacale, la moglie
Maddalena che Ninetto ama con una smaccata sfumatura di possesso. Tutti ci
vengono presentati e descritti, ma questa non è la loro storia. Nemmeno la
Storia ha grande spazio: Ninetto non è un grande osservatore dell’attualità,
non ci racconta di essere stato testimone di qualche evento storico. La storia,
in queste pagine è lui.
Il registro lessicale è semplice,
con pochi rimandi al dialetto siciliano a parte qualche parola di immediata
comprensione per tutti. Lo stile è sì semplice, ma raffinato perché Ninetto,
poeta mancato che a malapena prende la licenza media, ha sempre in mente le
lezioni del maestro Vincenzo e paragoni con Pascoli e Leopardi vengono fuori
quando meno ce lo si aspetta.
"L’ultimo arrivato" è il primo
classificato al 53esimo Premio Campiello. Per una volta, la storia non ci parla solo di
re e regine.