di Helga Schneider
Adelphi, 2001
pp. 132
€ 9
Dopo ventisette anni dal loro ultimo incontro una figlia di sessantuno anni si ritrova davanti alla madre ultranovantenne affetta da una irreversibile forma di demenza senile. Sembrerebbe il prologo di una reunion familiare ad alto tasso di kleenex se non fosse che la distanza, cronologica e non solo, è stata tracciata deliberatamente e chirurgicamente (ma non senza traumi) da ambo le parti.
Ottobre 1998. Ci troviamo in una casa di riposo alla periferia di Vienna e Helga Schneider, voce narrante nonché la figlia in questione, è investita da un uragano di sentimenti laceranti e in aperta contraddizione logica. Perché, dunque, per la seconda volta in cinquantasette anni si ritrova faccia a faccia con quella donna che nel 1941 ha abbandonato marito e figli (Helga e suo fratello Peter) per arruolarsi nelle SS? Tanto più che la genitrice biologica, fanatica sostenitrice del regime hitleriano, nel precedente incontro avvenuto nel 1971 a trent'anni di distanza dall'abbandono, non aveva rinnegato affatto quella scelta, e anzi con orgoglio e nostalgia aveva esibito agli occhi sgomenti della figlia la vecchia divisa militare, unico feticcio rimastole di quel passato tanto glorioso per lei quanto ingombrante (ed è un eufemismo) per la maggioranza del popolo tedesco.
Oggi ti rivedo madre, ma con quali sentimenti? Che cosa può provare una figlia per una madre che ha rifiutato di fare la madre per entrare a far parte della scellerata organizzazione di Heinrich Himmler? Rispetto? Solo per la tua veneranda età - ma per nient'altro. E poi? Difficile dire: nulla. Dopotutto sei mia madre. Ma impossibile dire: amore. Non posso amarti, madre.
Rifiutata l'ipotesi dell'amore filiale, impossibile da provare nei confronti di una figura che Helga ha chiamato "Mutti" ('mamma') l'ultima volta quando aveva quattro anni, le risposte a questi interrogativi saranno il frutto di una dolorosa conquista, di un percorso che la protagonista del libro è costretta a intraprendere perché spinta da un'ineluttabile volontà di sapere (un socratico "demone" interiore, come lo chiama la Schneider), di comprendere le ragioni, se così possono definirsi, di quella donna che di fatto rappresenta un'estranea. E, in fondo, è una recherche animata da una forte pietas umana quella di Helga; al pari di un Enea - classico paradigma dell'uomo pius - che si carica sulle spalle il peso dell'anziano genitore, la Schneider capisce infatti di non potere sottrarsi alla legge del sangue e, soprattutto, all'abisso di orrore e violenza che ogni uomo in quanto tale è chiamato a esplorare con la luce della ragione. E sta proprio qui il dilemma straziante e tragico, nell'accezione greca dell'aggettivo, di Lasciami andare, madre:
Lì dentro mia madre aveva dormito per anni e anni. Senza mai darsi pena per me. Quel pensiero mi insinuò un dubbio: non avevo mancato anch'io nel mio ruolo di figlia? Non sarebbe stato mio dovere comprendere, perdonare? Repressi uno strano impulso a coricarmi nel letto di mia madre. Le avevo forse perdonato? Con mia grande meraviglia, la risposta fu: sì. Le avevo perdonato il male che aveva fatto a noi, a suo marito, ai suoi figli... Ma quanto alle altre colpe dei cui si era macchiata, il diritto alla condanna o al perdono apparteneva esclusivamente alle sue vittime.
Sfera privata e dimensione storica si intrecciano dunque nel confronto di poco più di due ore tra Helga e la madre, rendendo così impossibile stabilire i confini tra le colpe individuali e quelle imputabili alla follia collettiva dello zeitgeist. Durante questo tempo l'anziana genitrice, alternando momenti di infantile senescenza ad altri di crudele lucidità nel rinverdire le memorie del passato, dimostra un carattere psicologico insondabile. Se alla fine rimangono incomprensibili e umanamente ingiustificabili le motivazioni della sua scelta:
"Volevo giurare! Volevo essere accettata come membro delle SS, lo volevo più di ogni altra cosa". "Era più importante della tua famiglia?". Annuisce. "Sì, ma tu non puoi capire. Nessuno può capire oggi...";
non si può certo negare che questa figura materna, proprio in virtù del netto contrasto tra l'evocazione del passato e la condizione di vulnerabilità fisica e psichica del presente, sembra scolpita da un chiaroscuro shakespeariano che racchiude tutta l'ambiguità e la complessità dei sentimenti di Helga Schneider nei suoi confronti.
Così, alla fine di questo unico (e, forse, ultimo) incontro, quando questa fragile signora di novantanni supplica la figlia di non andare via (da qui il titolo), quella stessa figlia che non ha esitato ad abbandonare quando questa aveva quattro anni, ci troviamo inermi e spiazzati davanti a una scena che smuove le ragioni più profonde, inquietanti e ineludibili del nostro essere uomini e donne, con le quali è impossibile non confrontarsi, apertamente e dolorosamente.
Pietro Russo
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