di Arthur Schnitzler
Tit. orig. Traumnovelle
Fischer - Verlag, 1926
Adelphi, 1977 1a ed. it.
Trad. it. di Giuseppe Farese
pp. 131
€ 8,00
Se
si dovesse ricercare una collocazione spazio-temporale al moderno
sviluppo d'interesse nei confronti del
sogno, la risposta sarebbe senza ombra di dubbio la Vienna del primo
Novecento. E non solo perché vi si aggirava meditabondo il padre
della psicanalisi, Sigmund Freud, ma anche perché tra gli oziosi -
in senso buono - avventori del cafè Griensteidl di sogno si parlava
spesso e volentieri. Si trattava, tra gli altri, di artisti, poeti ed
intellettuali del calibro di Hugo von Hofmannsthal, Hermann Bahr,
Karl Kraus, Stefan Zweig e - per l'appunto - Arthur Schnitzler. A
quest'ultimo, medico di professione, si deve forse l'opera più
conosciuta di quel periodo, Doppio
sogno,
da cui fu tratto nel 1999 Eyes
wide shut
di Stanley Kubrick. Già in un appunto del 1907 Schnitzler abbozzava
le prime linee di una Doppelgeschichte,
una doppia storia, cui Farese fa evidente riferimento nella sua
traduzione del titolo originale Traumnovelle
(lett.: novella del sogno). La trama è piuttosto semplice:
“Un giovane uomo sposato, un medico? Dal suo paziente, che è appena morto. Un'unica figlia. Continua a vagare nella notte, incontra una specie di tenuta nobiliare oppure arriva in un altro modo in un castello, un palazzo, dove si sta tenendo un ballo [in maschera], al cui culmine non cadono le maschere, ma i vestiti. Desidera una delle donne, è già pronto a fuggire con lei, un amante lo sfida, escono nel prato, duello, lui uccide l'uomo e subito riconosce [nel cadavere] un amico. A casa. Cosa le dirà? Lei dorme ancora. Si sveglia. Ora lei gli racconta il suo sogno.”1
Fino
al 1926, anno della prima edizione, l'intreccio subisce qualche
modifica – spariscono rivale e duello, compaiono altre due donne –
mantenendo grosso modo, però, la stessa impostazione. L'innovazione
più evidente è la ricerca di uno spessore psicologico, perpetrata
tramite una sorta di regime di libertà vigilata concesso
all'inconscio ed alle pulsioni nascoste del protagonista, Fridolin.
Una nota particolare merita l'incipit, che col pretesto di una fiaba
raccontata alla bambina della coppia, introduce un'atmosfera
fantastica ed onirica, ispirandosi ad un racconto de Le mille e
una notte:
“Ventiquattro schiavi mori spingevano remando la sfarzosa galera che doveva portare il principe Amgiad2 al palazzo del califfo. [...]”
Chiara
l'assimilazione allegorica di
Amgiad a Fridolin dei
ventiquattro schiavi con le sue
ventiquattro ore di
vagabondaggio in balia dei propri istinti.
Partendo da qui, Schnitzler, di formazione scientifica,
costruisce così una narrazione estremamente geometrica e regolare:
il giovane medico, animato da una sorta di insofferenza infantile nei
confronti della moglie, rea di averlo quasi tradito in sogno,
desidera ricambiare la presunta offesa subita ed intraprende un
viaggio lungo quarantotto ore, spingendosi in situazioni sempre più
rischiose. Nella prima notte incontra tre donne: una promessa sposa
infelice, una giovanissima prostituta ed una misteriosa dama
mascherata. Tutte, ai suoi occhi, possono offrirgli un'occasione di
riscatto nei confronti della moglie, ma nei fatti Fridolin appare
vittima di una profonda inibizione e non riesce a coglierne nessuna,
ritornando a casa all'alba. Il suo più che un sogno è uno stadio intermedio, in cui vengono a galla desideri ed istinti sopiti, ma non riescono ad emergere completamente ed a concretizzarsi. Che il sogno – e non la realtà vissuta
dal protagonista – sia il luogo deputato al dissolvimento delle inibizioni, era idea già
sviluppata da Hofmannsthal nel suo Edipo e la Sfinge3
nel 1906, facile dunque immaginare una sua influenza
nell'opera dell'amico Schnitzler. Con la precisione di un orologio, i
tre incontri si ripetono così il giorno dopo, con la stessa successione e
regolarità, in una vana e disperata
ricerca delle medesime sensazioni ed opportunità della notte passata. Così
come si erano aperte con la salma del paziente, queste quarantotto
ore di sogno apparente si chiudono con il corpo esanime della dama
misteriosa, cadavere pallido della notte passata, destinato
irrevocabilmente alla decomposizione.
Fridolin è colto dunque da un profondo senso di frustrazione ed
impotenza: l'unica soluzione possibile, a questo punto, è ritornare
ancora una volta al punto di partenza, chiudendo così un cerchio ideale, e rifugiarsi
tra le braccia rassicuranti della moglie, Albertine. Colpisce la
caratterizzazione di quest'ultima: personaggio statico e passivo, a lei si deve sia l'avvio della vicenda che
la sua placida conclusione: sarà lei ad accogliere
maternamente un marito che fino a qualche ora prima si trastullava
con l'eccitante idea di una doppia vita. Tutto quello che riuscirà a
dire sarà :
”[dobbiamo] ringraziare il destino, credo, di essere usciti incolumi da tutte le nostre avventure... da quelle vere e da quelle sognate”.
Nessuna
altra obiezione o reale discussione. La staticità di Albertine fa da
contraltare all'estrema instabilità di Fridolin: l'una che non si
farà mai sorprendere fuori di casa e che fa bella mostra di un
equilibrio quasi imperturbabile, a tratti glaciale; l'altro che corre
insofferentemente su e giù per Vienna, in preda ai più disparati
pensieri. Il loro comportamento. I loro movimenti rispecchiano
esattamente le rispettive indoli e stati d'animo, nessuna discrepanza
tra il livello psicologico e quello comportamentale. Esattamente nel
mezzo si colloca la loro bambina, sigillo tangibile dell'unione della
coppia, con la cui immagine Schnitzler - alter ego di Fridolin? - apre e chiude simbolicamente
il racconto, consegnando al lettore uno studio narrativo di pregevole fattura, fitto di corrispondenze e simmetrie, ma al tempo stesso appassionante e godibilissima lettura alla scoperta di tutto ciò che solo i sogni possono rivelare.
Adriano Morea
1 Trad.
mia da: Arthur Schnitzler,
Traumnovelle, Reclam
2013, p. 112
2 Le
mille e una notte furono
destinatarie di un grande interesse in quel periodo e del principe
Amgiad si legge anche nei quaderni di appunti di Hofmannsthal.
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