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"Hipster" di Tiziano Bonini

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Hipster
di Tiziano Bonini
doppiozero, 2013

e-book 3,50 euro




«La più grande paura dell'hipster è quella
di non riuscire ad emergere dalla massa,
di finire nel mezzo e di essere everyman»

«Chi è l'hipster? Perché è tanto odiato? È una sottocultura o rappresenta il mainstream?». Se è vero che l'imparzialità e un minimo di distanza storica sono i migliori presupposti per analizzare e descrivere senza pregiudizi o eccitamenti contingenti i fenomeni di natura più disparata, il saggio di Tiziano Bonini sul “mito d'oggi” del cosiddetto Hipster (un e-book “doppiozero”, 2014) risponde a entrambi i requisiti. Innanzitutto perché, come ricorda l'autore, la frequenza della parola nelle ricerche su Google è diminuita da qualche anno a questa parte, segno evidente di un certo annacquamento del fenomeno e di uno stemperamento del relativo brusio critico: così, se resta il fatto che la moda hipster sia senza dubbio «la cultura giovanile dominante dagli anni Zero al Duemila» è altrettanto vero che solo «ora che sta iniziando a tramontare possiamo finalmente cercare di capirci qualcosa». L'altra ragione per la quale il testo di Bonini val bene una lettura è che non c'è persona più adatta a trattare l'argomento hipster di chi si pensi certo di non avere nulla a che fare con l'hipsterismo o, peggio, l'hipsteria. Vale a dire, paradossalmente: l'hipster perfetto, ovvero l'hipster in potenza, celato, sopito, nascosto; l'hipster che non crede e non intende essere hipster e proprio per questo, fatalmente e involontariamente, lo è. Un po' come capitò ad Anatole Broyard, «scrittore, nero che si fece passare per bianco per poter vivere da scrittore», giornalista, critico ed editor per il New Tork Times, che nel 1948 pubblicò su The Partisan Review il lungo e spregiativo saggio Portrait of the Hipster.
Il lavoro di Tiziano Bonini – che è autore e regista radiofonico oltre che ricercatore in Linguaggi dell'Arte e dello Spettacolo all'Università IULM di Milano, dove insegna proprio Comunicazione Radiofonica – è prima di tutto un testo colto, a cui va riconosciuto il pregio della ricerca delle fonti (sempre citate, in corpo di testo e nella ricca bibliografia finale) e dell'argomentazione. Proprio in risposta alle troppe valutazioni meramente impressionistiche del fenomeno hipster, Bonini va a ricercarne l'origine nei libri e nelle riviste, nella musica e nella cronaca degli ultimi ottant'anni – questa l'età del busillis – per compiere quella che lui stesso definisce «un'archeologia del termine», ovvero «un viaggio a ritroso nel tempo per capire da dove viene questa parola, cosa significava, perché è così importante e perché non è solo un epiteto dispregiativo per definire giovani bianchi barbuti, dotati di baffi alla Cecco Beppe e montature di occhiali spesse che pedalano su bici a scatto fisso mentre ascoltano musica tramite cuffie giganti».

Quella dell'hipster degli anni Duemila è in prima istanza una forma di revival, che non solo «ci dice qualcosa sulla crisi della generazione di giovani cresciuti tra il WTO di Seattle del 1999 e la grande crisi economica iniziata nel 2008», ma soprattutto appare come «un concentrato di tutte le subculture giovanili del Novecento, in parte addomesticate dal marketing di grandi brand come American Apparel e Urban Outfitters, in parte ancora capaci di produrre una cultura autonoma di inizio millennio». Perché sono due le parole chiave del meccanismo hipsterico: rigetto ed emulazione. Rigetto nei confronti di un certo way of life perpetuante lo status quo, ed emulazione di un'attitudine controcorrente, eventualmente già messa in pratica da altre minoranze sociali e culturali. Ecco dunque gli zootie degli anni Quaranta, neri americani «che prendevano a prestito lo stile elegante del vestito completo per risemantizzarlo come forma d'eleganza e orgoglio afroamericano». Ecco poi, negli anni Cinquanta e Sessanta, i musicisti jazz bianchi, come Chet Baker e gli Evans, esponenti del cosiddetto cool jazz, il cui stile era basato sull'imitazione dei beboppers neri – Charlie Parker su tutti. Ecco gli scrittori beat, Jack Kerouac in testa, esponente di «una generazione di anticonformisti schiacciata tra l'ottimismo dei baby boomer e la guerra fredda». Poi arrivarono gli hippies. Poi fu la volta degli skinhead e dei punk. Poi del grunge. Poi della musica techno e dei rave. Solo che, proprio mentre tutte queste subculture giovanili si avvicendavano negli anni, e ragazzi e ragazze del Nuovo e del Vecchio Continente guardavano loro con interesse e si riconoscevano nei loro “Manifesti”, il famigerato Sistema si predisponeva a riassorbirli tutti al suo interno nei loro lati più accattivanti e superficiali, ovvero quelli esteriori epperò fortemente identitari, “brandizzandoli” alla bisogna e trasformandoli in meri fenomeni di costume. Così la moda, selezionando per annate, si è progressivamente appropriata di abiti e calzature, di accessori e acconciature, ritorcendo contro l'hipster il suo stesso meccanismo originario, consistente nel «vestirsi per salire o vestirsi per scendere (dressing Up or dressing Down)» la scala sociale.

Il “dramma” degli hipster di oggi, immersi nella colla paralizzante di una grande marmellata di politiche, culture e tendenze, in cui tutto e il contrario di tutto convivono placidamente, e in cui appare complesso stabilire dei meccanismi costanti e coerenti di opposizione-reazione, è cercare di affermare se stessi nella propria unicità ed esclusività: meglio, nella propria autenticità. Ma come raggiungerla, se l'unica strategia rimasta è il re-mixaggio di tutto un secolo di mode e di stili, nella schizofrenia del passare «una notte punk, una serata hipster, una vacanza hippie, una serata in frac»? È proprio in questo modo, destreggiandosi tra mainstream e underground, che l'hipster ostenta atteggiamenti e passioni (veramente autentici? artatamente affettati?) i quali, nel non volere essere “dell'oggi”, lo sono all'ennesima potenza, dal momento che «le uniche novità non sono più nuove subculture ma ibridi di quelle precedenti». La ricerca della propria identità e l'affermazione della propria personalità, che sono tappe dell'esistenza di ogni essere umano, vorrebbero dunque assumere nell'hipster contemporaneo le caratteristiche dell'esclusività più esclusiva. Peccato solo che, nel “non desiderare di essere come tutti”, l'hipster lo sia di già: alla tanto spregiata massa informe di individui, passivi e senza gusto, a tutti gli altri, insomma, lo accomuna il bisogno – che è primario – di esistere, di esserci, di dare un senso alle proprie spoglie corporali.

Nessuno, tuttavia, può dirsi dalla parte della ragione o del torto, soprattutto chi rivolge all'hipster un'equivalente percentuale di disprezzo. L'autore lo chiarisce in un passo illuminante, dal quale emerge che nel detestare e temere l'hipster in sé, detestiamo e temiamo – come fu detto per un certo uomo politico – l'hipster in noi:

«l'hipster è una figura spesso disprezzata e denigrata perché nell'hipster riconosciamo una parte di noi. Tutti siamo hipster in percentuali minori o maggiori, o almeno tutti quegli outsider che non accettano lo status di partenza e cercano di diventare, legittimamente, qualcos'altro […] c'è una fase hipster in ognuno di noi, per questo consiglierei a chi usa il termine con disprezzo, di farlo con cautela, perché se sei un giovane ventenne o trentenne che ha studiato e viaggiato e sta cercando di sopravvivere su questo pianeta, è probabile che da qualche parte, dentro di te, si annidi un hipster. Il disprezzo nasce spesso dal confronto con la propria vita. L'hipster, con la sua sola esistenza, ci sta dicendo che non siamo abbastanza innovativi, anticonformisti, abbastanza innovativi, abbastanza underground. Ci fa sentire nella media. E allora disprezziamo l'hipster. E lo disprezzano anche gli hipster stessi, perché l'hipster non sopporta di essere assimilato ad altri uguali a lui».

Come uscire, dunque, dalle spirali di questo labirinto apparentemente senza vie di fuga, in cui il sistema mercantile fagocita con inesausto appetito tutto ciò che vorrebbe porsi, indigesto, oltre le sue fauci? Bonini ha una sua risposta, che per quanto basata sulla sua personale esperienza di hipster inconsapevole – e dunque di hipster da manuale – ha un'applicabilità universale, oltre che un'essenza rivelatrice e sorprendente nella sua disarmante semplicità: «alla società dei consumi si sfugge, se si sfugge, solo uscendo fuori dai suoi confini, praticando relazioni umane che non prevedono transazioni economiche e passioni che non prevedono remunerazioni». Allo stesso modo si può sfuggire all'hipsterismo, che si contrasta «con lo stato sociale, l'amore profondo e sincero di qualcuno che dorme con te (quasi) tutte le notti, la passione reale per quello che fai ogni giorno»: perché «quando hai questo, smetti di desiderare di scalare o scendere le scale di una società senza ormai più scale, socialmente immobile, e vivi per quello che sei».

Il “segreto” per guarire dall'hipsterismo contemporaneo “con tutte le sue contraddizioni” cela, in fondo, la saggezza dei tempi antichi: basta «accettarsi per quello che si è, ovvero persone più o meno buone i cui gusti e le cui idee sono socialmente strutturate e influenzate dalla famiglia in cui si è nati, il quartiere in cui si è cresciuti, la disponibilità economica dei propri genitori e il grado di istruzione ricevuto». Siate voi stessi. Provateci. E soprattutto, non siate “la vostra fiction”. È la forma migliore di anticonformismo che possiate adottare in un modo che riesce benissimo a trasformare in merce ogni forma di ribellione.

Cecilia Mariani