di Kevin Powers
Traduzione di Matteo Colombo
Einaudi, 2013
pp. 195, € 17
Complici
la ricorrenza del primo conflitto mondiale e la tensione che dal 2001 ad oggi
attraversa il Medio Oriente, la guerra, tema caro alla letteratura, concreto e
metafisico, è tornata prepotentemente sulla scena. Da Matterhorn di Karl
Marlantes, uscito negli Stati Uniti nel 2010 (da noi per Rizzoli, romanzo
autobiografico iniziato nel 1975 dall’autore, che racconta della guerra del
Vitnam, al confine con il Laos, di soldati che combattono nemici dentro e fuori
se stessi, immersi fino al collo in “sangue e fango”) fino a episodi tra guerra
e guerriglia – aggiornamento del conflitto in chiave contemporanea – come Il
demone a Beslan di Andrea Tarabbia (Mondadori 2011, sull’eccidio di 334
ostaggi ad opera di islamici e ceceni), o anche il Corpo umano di Paolo
Giordano (Mondadori, 2012) - il confronto
con se stessi – le proprie storie sospese – che alcuni soldati italiani devono
sostenere durante la missione nella impervia e pericolosa zona afghana del
Gulìstàn, la guerra è tornata grande protagonista tematico di questi primi due
decenni di romanzo occidentale. Sicuramente,
oltre alla situazione politica ed economica incerta e tesa di queste zone del
mondo, e all’equilibrio ancora da trovarsi tra nuove e vecchie potenze,
precedenti assetti e futuri, contribuisce alla ribalta del tema la cognizione
della catastrofe, l’idea – strisciante, sottofondo presente e cardine di molte
delle ricerche più audaci di psicologia e economia degli ultimi anni – secondo cui
ciò che stiamo vivendo è una serie di catastrofi che ne svolgono una, più
vasta, la cui eco non si sa fin dove giungerà, né il suo portato, ma di cui si
possono rintracciare alcune caratteristiche: i fondamenti della civiltà messi
in discussione; i frutti del progresso adoperati per i fini più disparati, spesso
nocivi per molti; la diffusione della “liquidità” sociale, con la farragine ei
disordini che essa implica, ove si diffonda in luoghi ancora impreparati alla
modernità; il problema dello spirito e della materia, della religione e del
consumo, in ultima istanza, della fede e del fine dell’uomo; eccetera. In
questa prospettiva, Yellow Birds di Kevin Powers, soldato sin dall’età di
diciassette anni, mitragliere nella guerra d’Iraq tra 2004 e 2005, autore di
questo romanzo autobiografico e potente, è esemplare di questo nuovo modo di
narrare la guerra, e talmente archetipico nella narrazione schematica e sempre
fortemente simbolica degli eventi scelti e descritti da aver ricevuto, proprio
per questo, incondizionate lodi da Dave Eggers, Alice Sebold, Philip Meyer, e
una considerazione – meno entusiasta ma chiara – anche dal mostro sacro della
critica letteraria statunitense Michiko Kakutani.
Il
romanzo, che è breve (non arriva a duecento pagine, nella traduzione di Matteo
Colombo) e rapido nell’incedere, è caratterizzato da blocchi narrativi, intrecciati
in fase di montaggio, che affrontano il tema della leva militare (e il
cameratismo che ne viene), quindi la guerra (introduzione, addestramento,
scontri, azioni, riposo dall’azione, di nuovo azione, fine dell’intervento),
infine il tema del ritorno (il ritorno dalla guerra da un lato, il tempo
precedente alla partenza, dall’altro). I capitoli scorrono veloci, con un linguaggio
diretto ma anche allusivo, ovviamente paratattico, come ormai tutta la prosa
americana – e occidentale, fatta eccezione per pochi, il Philipp Meyer del “Figlio”
(Einaudi, 2014), ad esempio – e un certo gusto, anche tirato un po’ troppo per
le lunghe, per rinviare alle pagine finali il giallo della morte del soldato
Murph, soldato amico e protetto del protagonista, Bartle, la cui fine è in
fondo il motore della narrazione tutta.
Murph
appare, nel romanzo, un sommerso, per dirla con Levi: un soldato destinato alla
morte, irreversibilmente, come fosse iscritta nella sua storia, nella sua vita,
ed egli stesso ne fosse convinto, al punto da non opporvisi. Il senso di colpa
porta Bartle a ripercorrere la storia, che diventa narrazione accorata della
solitudine dell’uomo nella guerra, della sua assoluta estraneità, dell’incapacità
di comprendere profondamente la ragione della guerra. Al sottofondo di
scatologia, cameratismo, litigiosità e paura che distingue il mondo dell’esercito,
alla presentazione di personaggi severi e odiosi ma in fondo comprensibili anch’essi,
nel loro agire e sui motivi del loro agire – il sergente cui risponde Bartle –
corrisponde un soldato sempre più solo, e un significato delle cose sempre meno
chiaro e più sfuggente. Se i libri sulle grandi guerre del passato tenevano
ancora a raccontare la possibilità dell’eroismo, la ragione della patria, il
senso dell’atto bellico nonostante la tragicità della vita di trincea e di
prima linea, la narrativa bellica ha ormai abbandonato quasi del tutto questa
strada (e con essa, il cinema): la guerra è incomprensibile e inutile, sempre;
l’eroismo è un eroismo di rassegnazione e ripiego, mai di iniziativa; il mondo
non assolverà mai i soldati per ciò che hanno fatto, e nessuno li capirà, né
essi cercheranno conforto o compassione. Segno della catastrofe che attraversa
questo tempo, il ripiego del soldato su di sé è anche una inquieta abdicazione
che l’Occidente, e le certezze che lo muovevano alla guerra, opera, verso il
mondo, al ruolo di tutore, alfiere della libertà, difensore di una civiltà in
cui nemmeno più sa se riconoscersi. La
solitudine del reduce è il destino cui la solitudine del soldato conduce.