di Matilde Hochkofler
con la collaborazione di Luca Magnani
Bompiani, 2013
pp. 396
19,00 euro
Si intitola semplicemente Anna Magnani. La biografia (Bompiani, 2013) il volume redatto da Matilde Hochkofler in memoria di una delle attrici italiane più significative del secolo scorso. Nessun gioco di parole, nessuna perifrasi o citazione, quasi a voler omaggiare già dalla copertina quella schiettezza spesso brutale che fu sempre cifra distintiva del carattere sia della donna (Anna) sia della primadonna (la Magnani). Un'asciuttezza che è però anche spia di ciò che il lettore, a dispetto della mole, troverà nelle quasi quattrocento pagine compilate con la collaborazione di Luca Magnani, il figlio – l'unico, e amatissimo – dell'artista, che già nel 2004 aiutò la studiosa a curare la mostra Ciao Anna, allestita presso i Musei Capitolini di Roma. Perché La biografia, in fondo, non vuole essere altro che questo: una cronaca rigorosa, dettagliata e documentata degli avvenimenti pubblici e privati che scandirono l'esistenza e il percorso teatrale e cinematografico dell'artista. Una narrazione cronologica, a tratti quasi “evenemenziale”, che nel rendere conto di successi e fallimenti, di amori (molti, e sempre tormentati) e amicizie, per così dire, larger than life (da Trilussa a Bette Davis), resta coraggiosamente priva di concessioni scandalistiche fini a se stesse. Una scelta, questa, per molti aspetti esplicitamente opposta rispetto a quanto ci si sarebbe potuti aspettare proprio in relazione a una diva come Anna Magnani, tanto spesso al centro delle polemiche e delle cronache mondane, e sempre chiamata, a torto o a ragione, a fare i conti con la propria attitudine a vivere la vita come l'arte (e viceversa). Allo stesso tempo, però, il racconto si avvantaggia di una particolare forza interna, di un'intimità speciale, dovuta sia alla percepibile passione sottesa al lavoro dell'autrice, sia agli interventi in prima persona dello stesso Luca, erede parlante in corsivo (fuori scena? fuori campo?) in calce ai capitoli più significativi.
Non che La biografia, a ben guardare, non celi già nella sua struttura qualche efficace astuzia di montaggio. Basti pensare al suo inizio in medias res, in quel 21 marzo 1956 in cui l'attrice, allora all'apice del successo nazionale e internazionale, trascorre nella sua casa romana La lunga vigilia notturna in attesa dell'assegnazione degli Academy Awards, che si concluderà con la sua proclamazione a miglior interprete femminile per il ruolo di Serafina in La rosa tatuata, scritto per lei dall'amico drammaturgo Tennesse Williams. Un esordio trionfale, dunque, quello scelto da Matilde Hochkofler, che già si carica di molti sottintesi sulla statura artistica del personaggio. Eppure, se si eccettuano i numerosi altri picchi della carriera della Magnani – gli stessi che, dopo il lancio definitivo con Roma città aperta (1945), faranno di lei un'icona del teatro e del cinema italiano, nota anche a chi non abbia mai visto nemmeno uno dei suoi spettacoli e film – sono altri gli aspetti destinati a colpire il lettore. E quasi mai questi coincidono con la vulgata solita o, peggio, caricaturale di una Magnani sempre esageratamente appassionata, arrabbiata, arruffata, vociante, volitiva, verace più dello stesso vero. Sono particolari apparentemente insignificanti, e invece spie luminose di un temperamento unico, di un'esistenza clamorosa che però sembrava trovare la sua dimensione più autentica proprio nelle “usanze antiche e semplici” della Vecchia Roma della canzone popolare. Così, per esempio, per l'amore per gli animali, da sempre preferiti agli esseri umani: i molti cani, tra cui Micia, la lupa regalatale da Roberto Rossellini; i gatti randagi dei quartieri cittadini, sfamati in puntuali ronde notturne con gli avanzi delle ricorrenti cene conviviali; e ancora i galli e le numerose galline liberamente razzolanti fuori e dentro l'adorata villa del Circeo.
Come per una “serata d'onore” in cui l'attrice si esibisca nei suoi cavalli di battaglia, anche La biografia riesce variamente a emozionare: ci si intenerisce per le vicende della sua infanzia, di bimba tirata su dalla nonna e dalle zie materne, sempre nostalgica di una madre lontana e di un padre sconosciuto; ci si dà pena per lei e con lei, giovane madre di un figlio dalla salute cagionevole curato in Svizzera; la si sente più vicina, e ancora più “terrena”, nell'apprenderne la paura dell'aereo, dell'invecchiamento e delle malattie; se ne ha addirittura timore mentre la si immagina gridare: “Esci fuori, esci fuori da lì sotto, che te devo mena'!”, a un Rossellini nascostosi sotto un letto d'albergo durante una delle celebri e teatralissime litigate della coppia. E ci si commuove, infine, arrivati a Ciao Nanì, l'epilogo triste ma trionfale in cui lo sconcerto per la sua morte prematura il 26 settembre 1973 a causa di un tumore al pancreas viene esorcizzato dalla folla accorsa ai funerali con un lancio plebiscitario di sensuali rose rosse su quella bara che era stata poggiata direttamente sul pavimento della chiesa di Santa Maria sopra Minerva. Come per nobili, per i capi di Stato e per gli eroi nazionali.
A lettura ultimata, sono forse due le immagini che restano più impresse nella mente e negli occhi del lettore, le stesse che, non a caso, aprono e chiudono la bella galleria fotografica in bianco e nero che arricchisce il volume. La prima è quella di un'Anna bambina, ritratta in uno studio di posa tra la zia Dora e la zia Italia: abitino candido con fiocchetti vezzosi, calzette corte nelle scarpette stringate, un fiorellino bianco tra i capelli corvini. E un cerchio, stretto tra le manine e puntato fermo al pavimento con un'energia nervosa che va oltre la prevedibile esasperazione per l'immobilità della postura, e che se messa in relazione allo sguardo sconcertante della bimba, spaventosamente adulto sotto la frangetta diritta, fa perdere all'oggetto ogni parvenza di giocattolo d'epoca per trasformarlo nel simbolo profetico di un'esistenza più che mai “circolare”, mossa da grandi gioie e altrettanto grandi dolori. La seconda immagine, invece, coincide con l'ultima e fuggevole apparizione cinematografica dell'artista, in coda al film Roma (1972) di Federico Fellini: un cameo che l'attrice concesse solo dopo vari tentennamenti, ma nel quale l'amico riuscì a consacrala in tutto il suo ambivalente magnetismo. Come ricorda Hochkofler:
«Alla fine del film […] il regista la inquadra davanti al portone di Palazzo Altieri. La sua voce fuori campo dice: “Questa signora che rientra a casa, costeggiando il muro di un antico palazzo patrizio, è un'attrice romana: Anna Magnani, che potrebbe essere anche un po' il simbolo della città.” Anna, interrompendolo: “Chi so' io?” Fellini: “Una Roma vista come lupa e vestale...” Anna, sempre più meravigliata: “De che?” Fellini: “...aristocratica e straccionesca, tetra, buffonesca. Potrei continuare fino a domattina.” Anna, da dietro il portone socchiuso: “A Federi', ma va' a dormì, va'!” Fellini: “Posso farti una domanda?” Anna: “No... nun me fido. Ciao” e chiude il portone. Così Anna esce di scena. Fellini, pur nel minuscolo ritratto, con la sua voce chioccia fuori campo, la carica di qualità eccessive, che sembrano schiacciare la sua figuretta esile, resa ancora più piccola dalla maestosità dell'alto portale. Ma la saggezza antica, l'irridente sfiducia di Anna vince su tutto.»
Completano il volume una ricca nota bibliografica e la filmografia dell'attrice, ultimo invito – che il lettore (il pubblico) non potrà non cogliere – a riveder la star, e quasi a ringraziare per quella “lacrima di troppo” e quella “carezza di meno” che furono all'origine della sua vocazione.
Cecilia Mariani