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Parole dal carcere: Antonella Ferrera racconta il Premio "Goliarda Sapienza"

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Si è sentito spesso parlare, nelle ultime settimane, del Premio letterario Goliarda Sapienza, giunto ormai alla sua quinta edizione. Se n’è sentito parlare perché molto noti erano i nomi dei personaggi coinvolti (da Luca Argentero a Federico Moccia, da Erri De Luca a Giancarlo De Cataldo); se n’è sentito parlare perché la madrina dell’evento è nientemeno che Dacia Maraini e a condurre la cerimonia di premiazione, che ha avuto luogo il 16 novembre nella Casa Circondariale Regina Coeli di Roma, è stata Serena Dandini. Se n’è sentito parlare anche perché, in concomitanza con la conclusione dei lavori del concorso, è stato mandato in onda in prima serata su Rai 3 il secondo cortometraggio legato a questa iniziativa: si intitola “Fuori”, vede come protagonista Isabella Ragonese per la regia di Anna Negri ed è stato tratto da uno dei racconti finalisti dell’edizione 2014. La ragione principale per cui il Premio è stato oggetto di grande interesse, però, risiede nel fatto che questa iniziativa porta all’attenzione del pubblico una particolare forma di narrativa carceraria: non già quella che parla del carcere, ma quella che parla dal carcere, che riporta nel mondo esterno le voci di chi nel carcere è segregato, spesso da molti anni. Per comprendere meglio lo spirito di un progetto così particolare ed importante, CriticaLetteraria ha voluto intervistarne l’ideatrice e responsabile, la giornalista Antonella Bolelli Ferrera.

Qual è il contesto in cui è nato il concorso, la sua storia?
Il concorso è nato da un’idea che ho avuto un po’ di anni fa, quando conducevo “La storia in giallo” per Radio 3 e ricostruivo la vita di grandi personaggi. Molti avevano avuto disavventure anche carcerarie, come Goliarda Sapienza, che proprio dopo un’esperienza di detenzione scrisse il romanzo breve L’università di Rebibbia, il primo libro che un editore accettò di pubblicarle. Per lei, da questo punto di vista, il carcere rappresentò un’opportunità, così mi sono detta: “Perché non dare la stessa opportunità alle tante persone che si trovano a vivere la stessa esperienza?”. Mi è venuta così l’intuizione di dare vita a un premio letterario e ho pensato di affidare i racconti migliori – quelli scelti come finalisti - a dei grandi scrittori che fungessero da tutor letterari, per supervisionare l’editing. Così è stato. In seguito, oltre agli scrittori abbiamo coinvolto anche attori, registi, giornalisti, figure che in qualche modo fossero abituate a maneggiare la materia letteratura.


Come vengono scelti i tutor?
Il primo anno abbiamo contattato gli scrittori per coinvolgerli nel progetto e hanno accettato sulla fiducia, perché era la prima edizione, anche se una madrina come Dacia Maraini e un presidente della giuria come Elio Pecora erano già ottime garanzie. Adesso, invece, capita anche che siano gli stessi scrittori a proporsi come tutor, per il desiderio di vivere quella che si rivela non solo un’esperienza letteraria, ma anche un’esperienza umana, che ti mette in contatto con una realtà che ti segna, che esula dall’attività professionale abituale.

In che misura i tutor intervengono sul testo?
In alcuni casi c’è la necessità di minimi interventi: abbiamo scoperto negli anni che ci sono persone che hanno attitudini letterarie indipendentemente dal percorso di studi intrapreso, anche se – va detto – molti detenuti, soprattutto quelli di lungo corso, hanno frequentato le scuole e anche l’università all’interno del carcere, per cui hanno una qualche formazione letteraria. In altri casi in cui le difficoltà di scrittura sono maggiori, soprattutto negli stranieri, nella selezione consideriamo l’originalità della trama. In quei casi l’intervento sul testo deve essere maggiore, anche se restano delle basi di contenuto molto forti.

Quali sono i numeri della partecipazione al concorso?
La partecipazione è sempre più elevata: negli ultimi anni abbiamo avuto all’incirca cinquecento racconti provenienti da tutta l’Italia, anche dagli istituti penali minorili, che come ovvio, sono numericamente inferiori rispetto a quelli degli adulti.


La finale della V edizione del Premio a Regina Coeli

Come funziona la selezione?
In generale i testi vengono valutati sia sulla base della qualità letteraria, sia su quella dell’originalità del racconto. Facciamo un primo screening e poi un secondo, fino ad arrivare a venticinque racconti, venti per la sezione adulti e cinque per la sezione minori e giovani adulti. Successivamente, sulla base di un sorteggio i testi vengono abbinati ai tutor. A ciascuno è inviato il racconto senza alcuna indicazione sull’autore del testo, anche per ragioni di privacy, così da non condizionarlo in nessun modo nella prima valutazione dell’opera e nella scrittura dell’introduzione. Anche se, in molti casi – ed è quello che sempre auspichiamo – i tutor chiedono di incontrare il “loro” autore. Li accompagno io stessa a trovare la persona detenuta e, devo dire, sono sempre incontri intensi, carichi d’emozione: due mondi lontani che si avvicinano, fino a toccarsi, grazie alla letteratura. Una specie di magia. Questi incontri, peraltro, rappresentano per i detenuti un grande stimolo a proseguire nella scrittura (e nella lettura, che è fondamentale). Si rendono conto che usando le loro energie e le loro capacità in qualcosa di buono, possono migliorarsi come persone e trovarsi a discutere alla pari con un grande scrittore del loro racconto.

Che cosa l’ha colpita di più nella raccolta di quest’anno?
La raccolta di quest’anno è la più eterogenea, non in termini di qualità letteraria, ma di temi trattati. I racconti sono diversissimi l’uno dall’altro. In passato capitava più spesso che i racconti si concentrassero sulla vita all’interno del carcere. Adesso, forse anche perché alcuni autori partecipano più volte, raccontano il prima, cosa li ha condotti lì, oppure degli episodi, degli stralci della loro vita durante la detenzione. O ancora ritraggono le persone che hanno vicino, l’amicizia, la propria infanzia, le proprie aspettative… Aiutano a capire meglio i trascorsi che li hanno condotti a un certo tipo di devianza.

Non ho potuto fare a meno di notare che i racconti al femminile selezionati sono molto pochi rispetto a quelli maschili. Esiste una ragione particolare?
Questa è una domanda interessante. Intanto le donne in carcere sono numericamente inferiori rispetto agli uomini, ma questo non è sufficiente a spiegare il dato. Di racconti al femminile, in effetti, ne sono arrivati un buon numero, ma spesso si tratta di testi elementari e monocordi riguardo i temi trattati (uso di sostanze, spaccio). C’è spesso rabbia, lamentela, non c’è una vera narrazione, sembrano più lettere che racconti. Ovviamente questo non è un assoluto: una delle finaliste dello scorso anno, Agnese Costagli, invece che raccontare una giornata dentro, ha raccontato una giornata fuori dal carcere, con tutti i limiti, soprattutto psicologici, in modo molto originale. E anche quest’anno ci sono due racconti di donne molto belli, uno speravo vincesse. Ma questo è abbastanza raro, di solito. Il nostro è un concorso letterario, e come tale dobbiamo trattarlo.

E non si può negare che da questo concorso scaturiscano spesso temi interessanti e stimolanti anche per il lettore…
Infatti l’obiettivo primario del concorso è quello di portare fuori certi argomenti. Non è solo per i detenuti, per offrire loro un’opportunità di evasione mentale, ma anche per portare alla luce determinati aspetti che di solito non vengono affrontati all’esterno se non nell’ambito della cronaca. C’è altro, dentro, c’è un’umanità, ci sono dei percorsi, e ognuno è un caso a sé.


Antonella Bolelli Ferrera ed Elio Pecora, presidente della giuria

Per concludere, ci può raccontare come i carcerati vivono l’esperienza del concorso?
In un primo momento sicuramente lo vedono come un momento di sfogo, di evasione appunto; solo dopo, quando iniziano ad arrivare i primi riconoscimenti letterari, iniziano a percepire veramente la forza di questa iniziativa. Allora possono trovare l’occasione di modificare di conseguenza la loro vita, magari si iscrivono all’università, o iniziano a scrivere di più, a cimentarsi in altre forme artistiche, come il teatro. Insomma, a volte trovano la forza per intraprendere un percorso virtuoso. La scrittura questo potere ce l’ha.   

a cura di Carolina Pernigo