Leggere Chevillard è una sfida avvincente. Sebbene la trama si
riveli semplice e lineare, il lettore è stupito da due fattori: l’apparente
senso dell’assurdo esistenzialista che aleggia nel corso delle vicende e la
struttura narrativa apparentemente senza schema.
Sarà bene partire dalla
trama. Il protagonista (e narratore) senza nome porta da sempre una sedia
rovesciata sulla testa. La pratica gli viene consigliata da piccolo da un
medico per correggere la postura. Il narratore finirà per farne un must della sua esistenza da asociale
incallito.Qual è il suo
obiettivo? Tramandare questa nuova moda ai posteri, sebbene lamenti l’attenzione
e le risa che ne conseguono. Perché è “proprio
a lei [la sedia, ndr] che devo il
fatto di avere il mio posto nella comunità”. Primo elemento assurdo e primo
richiamo letterario: il protagonista ricorda un Des Esseintes del giorno
d’oggi, attratto dal fascino della solitudine ma al contempo dalla tentazione
di essere ricordato ed accettato dalla società. Non a caso, il protagonista
riuscirà ad attirare nuovi adepti che seguiranno questa bizzarra filosofia di
vita secondo la quale:
Questa sensazione di comodità [sulla sedia, ndr], il mio cranio la proverebbe meglio e più sottilmente del mio culo, anche con più piacere, poiché il cranio dell’uomo è una scatola di osso molto dura mentre le natiche dello stesso sono così, rotonde, carnose, molto morbide, che un supplemento di comodità sembra superfluo […]
Arriva una svolta.
Protagonista e adepti della sedia a suo seguito vengono bruscamente sloggiati
dalle forze dell’ordine dal cantiere in disuso (si badi bene, il cantiere di
una biblioteca). Si trasferiscono tutti sul soffitto di Méline, la ragazza del
protagonista (il quale cerca di convincere anche la povera borghesuccia a
convertirsi alla filosofia della sedia). Secondo elemento assurdo e altro
riferimento letterario: il Messia della sedia vuole fondare una nuova società
parallela al “mondo di giù”, andando alla conquista di tutti i soffitti circostanti.
Un moderno Robinson Crusoe, su sua stessa ammissione all’inizio del romanzo (“[…] sono diventato sveglio, un vero
Robinson Crusoe […]”). Abbandona la sedia – momento descritto come un vero
e proprio trapasso a miglior vita –, diventa politico e stratega. Apparentemente
asociale e vittima della società, al contrario il protagonista si rivela un
vero e proprio animale sociale. Lotta per la sopravvivenza personale e dei suoi
adepti, escogita strategie, si adatta al nuovo “punto di vista”, sogna un
futuro in grande, fa progetti, sospira ai nuovi profili culturali e letterari
che verranno formandosi.
Insomma, la sedia e la
biblioteca mai completata non sono altro se non simboli di una civiltà “in
disuso”, abbandonata a se stessa, crateri di un antico splendore politico,
sociale e culturale (come insegna la storia della sedia, di cui il protagonista
ci regala un dettagliato excursus). Allo stesso modo, la famiglia Raffin è
l’emblema di una borghesia sterile e corrotta, guidata dalla monotonia delle
azioni e dall’immobilità culturale.
Cosa fare allora?
Bisogna ricostruire dalle ceneri, sopra quella società troppo in basso,
tagliando definitivamente i ponti con il mondo di sotto per rinascere ed
elevarsi come la fenice in uno “spazio
neutro, vergine, offerto al libero esercizio dei suoi talenti”.
Stilisticamente
parlando, la trama si articola in periodi proustiani (lunghi anche dieci righe)
intermezzati da lunghi excursus apparentemente estranei alla vicenda principale
(semmai ce ne sia una vera e propria, chi può dirlo?). Gli excursus originano meditazioni sulla società (i paragoni con il mondo animale
non scarseggiano), sulla storia, sulla vita – di certo, gli aneddoti e le
parabole della signora Stempf non sono inseriti per puro esercizio letterario.
Una prosa che ricorda
quella del Nouveau Roman, costruita ad hoc per un pubblico attento, sveglio,
pronto a cogliere qualsiasi dettaglio (anche la posizione delle virgole, come
ci fa ben notare il traduttore Gianmaria Finardi nel suo commento finale). La
narrativa dei nouveaux romanciers
viene riecheggiata vagamente anche dalla figura del protagonista stesso,
anonimo e decostruito. Questo mondo rovesciato, enfatizzato dalla sintassi e
dal lessico ricercato, ricorda ancora uno dei più grandi titoli francesi dell’Ottocento,
À Rebours (in
italiano Controcorrente). Ciò che è certo, è che l’autore non lascia
nulla al caso come si sarebbe portati a pensare inizialmente, al contrario
tutto è incastrato in uno schema, tutto ha un posto e uno scopo ben preciso. A
partire dalla scelta del titolo, con il quale Chevillard pone l’accento proprio
sul soffitto, su quel terreno “neutro e vergine” di rinascita e di libertà.
Che tipo di sfida
lancia allora Chevillard al lettore contemporaneo? Da qualsiasi punto di vista
lo si analizzi, Sul soffitto è una
fonte inesauribile di provocazioni – innocue e non – e rimandi indiretti. Un
invito alla riflessione, forse, in un mondo in cui il pensiero è dominato
sempre più dalla monotonia, dalla pigrizia e dai pregiudizi sociali.
Arianna Di Fratta
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