Incontriamo Linda Lê presso l’Institut français di
Firenze, nella piazza Ognissanti affacciata sull’Arno, in un’atmosfera di cortese
accoglienza e sollecita attenzione. La piccola saletta è gremita di persone. L’autrice franco-vietnamita ha l’eleganza innata dei
francesi ma il riserbo e le sembianze tipici degli orientali: lunghi capelli
neri con una frangetta che ombreggia lo sguardo a mandorla, Linda Lê si siede
accanto all’interprete e risponde con voce sottile ma ferma alle domande di Titti
Giuliani, la giornalista della Nazione chiamata a moderare l’incontro.
Oltre un’ora di domande e risposte, con la partecipazione
attiva del pubblico, non sono sufficienti ad approfondire fino in fondo l’ampiezza
di temi e le riflessioni smosse dai due libri che l’autrice presenta: Come un’onda
improvvisa (qui trovate la recensione) e Lettera al figlio che non avrò. Si parte dal primo, il romanzo corale che alterna quattro
monologhi in quattro differenti momenti di una giornata, all’indomani della
morte di Van, editor e revisore bozze vietnamita trapiantato a Parigi a soli 15
anni e deceduto a cinquanta, dopo essere stato investito dall’auto della moglie
Lou, all’uscita della casa della sua amante Ulma. Come ci racconta l’autrice, la struttura del romanzo, che
vede Van, Ulma, Lou e Laure (figlia di Van e Lou) raccontare e riflettere sugli
avvenimenti che nell’ultimo anno hanno condotto al tragico epilogo della morte
di Van, è nata quasi per caso, come ampliamento di un’idea di partenza: quella
di analizzare il rapporto tra due persone, legate da vincoli di parentela, ma allo
stesso tempo connesse da un’attrazione ambigua e pericolosa che, come una
spirale, si evolve avviluppando ciò che ha intorno, attraendolo e
trasformandolo per sempre.
La giornalista Titti Giuliani sottolinea quello che forse è
l’aspetto più lampante di Come un’onda improvvisa: l’impossibilità di
conoscersi e conoscere l’altro, l’incomunicabilità ineluttabile che lega ogni
individuo agli altri, persino a coloro che con lui condividono un legame di
sangue. Ma Linda Lê sorprende l’auditorio rispondendo che, al
contrario, quello di Van, Lou, Laure e Ulma è anzi un percorso alla scoperta
dell’altro, dell’alterità che,
infine, permette di conoscere se stessi. Per capirlo, basta guardare al rapporto tra Van e Ulma, che porta
l’uomo a guardare alle proprie origini e al proprio Paese di appartenenza (il
Vietnam) con spirito pacificatore, con uno sguardo di riconciliazione che pone
fine al suo continuo sentirsi straniero: straniero rispetto al Vietnam, che ha
abbandonato ancora bambino e mai conosciuto davvero; straniero nei confronti
della Francia che lo ha accolto, ma che lo fa sentire sempre più “altro”, lontano, diverso.
Alla domanda: quanto c’è di autobiografico in Come un’onda
improvvisa?, la scrittrice risponde che Van è probabilmente il suo alter
ego romanzesco, con lui condivide le origini vietnamite e le è particolarmente
caro per il suo parlare da un Oltre distante anni luce dal qui e ora terreno. È grazie alla scrittura, ci racconta Linda, che anche il suo
rapporto con il Vietnam, quest’ingombrante e complessa origine che condivide
con Van, ha trovato pace. Da un legame conflittuale vissuto nel periodo
adolescenziale e giovanile, grazie alla trasposizione letteraria, quasi come
processo terapeutico, adesso riesce a guardare al suo Paese con sentimenti di
distanza e riconciliazione. Una lezione valida, a ben vedere, per chiunque desideri
trovare la via per superare un ostacolo emotivo, un’idea disturbante, un trauma
del profondo: la scrittura diventa strumento per porre distanza tra sé e le
cose, tra l’Io sofferente e ferito e un’identità che va ricostruendosi, riparte
da una visione nuova degli eventi, che può nascere dalla loro elaborazione
scritta.
Parlando di cifra autobiografica, non si può non fare
riferimento a Lettera al figlio che non avrò, il secondo romanzo presentato a
Firenze da Linda Lê. È sicuramente il più autobiografico, ammette l’autrice, e
parte da una richiesta dell’editore che ha dedicato un’intera collana alle lettere
che non si ha mai la forza di scrivere, quelle parole destinate a qualcuno a
cui non si ha il coraggio di rivolgersi.
Invitata a oltrepassare quest’invisibile linea di confine,
Linda Lê ha scritto al figlio che mai metterà al mondo una lettera struggente
eppur lucida che illustra i motivi di tale rinuncia. In questo senso, è la
stessa autrice a ricordarlo, il libro non è sulla stessa lunghezza d’onda di Lettera
a un bambino mai nato della fiorentina Oriana Fallaci, che racconta un aborto
e non un rifiuto e una rinuncia della maternità. Tuttavia, la scrittrice vietnamita ci tiene a distinguere
fra l’Io autore e l’Io narratore, sottolineando come, sebbene ci siano punti di
contatto tra i due in Lettera al figlio che non avrò, sono anche molti gli
elementi di lontananza (primo fra tutti, il ritratto certo non lusinghiero
della madre della protagonista).
Ciò che colpisce, comunque, di questo libro (come ben
sottolinea Titti Giuliani), è la sua contraddizione intrinseca: nel voler
difendere la libertà di scegliere la rinuncia, il diritto di ogni donna ad
essere Individuo, prima e a prescindere dall’essere (o meno) Madre, l’autrice
si rivolge direttamente al suo Bambino, mai nato e mai concepito, rivolgendogli
un appello disperato, raccontandogli i progetti, le preoccupazioni, le
difficoltà che l’affliggono, quasi a proiettare in lui un bagaglio di maternità
che, seppur inespresso, la protagonista sembra possedere. Non commenta, Linda Lê, tale affermazione, se non
indirettamente: ammette che il paradosso della Lettera sta proprio in questo,
in un destinatario che prende corpo progressivamente per la narratrice e appare
sempre meno etereo e più corporeo. Sempre meno rinuncia e più realtà.
Barbara Merendoni
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