Villa Medici, quattro novembre. Entro in punta di piedi, intimidita dalla location suggestiva. “Sembro Elizabeth Bennet a Pemberley”, mi dico. Arrivo in anticipo, riguardo i passaggi del romanzo di Weyergans che mi hanno toccata sul personale. Anche quelli che mi hanno scioccata, ad esempio quando il protagonista ammette di aver venduto una lettera di Albert Camus ("non posso perdonare un simile affronto!", mi dissi leggendo). Mi guardo intorno, mi sento fuori luogo tra queste personalità colte e di certo più eleganti della sottoscritta; ansiosa all'idea di vedere per la prima volta un accademico di Francia.
Poi, Weyergans arriva. Personalità giovanile, abbigliamento semplice, umile nonostante il pozzo di conoscenze che trapela in Franz e François, tradotto e pubblicato dalla casa editrice L’Orma nel 2015. Mi risollevo, sorrido, vengo totalmente rapita da questa personalità gioviale. “Ecco come fa il suo Franz a conquistare tante donne”, penso. A confermare la mia ipotesi sarà lo stesso autore nel rispondere: “Come si fa a scegliere tra macchina da scrivere e una notte con una donna? Ѐ come scegliere chi preferisci tra mamma e papà”.
L’intervista è tenuta da una brillante e preparatissima Chiara Valerio. Weyergans, però, la tiene sulle spine, la punzecchia, cerca di sciogliere la tensione. “Parla veloce, sembra il mio maestro”, dice scherzosamente a Lorenzo Flabbi. Il tono dell’intervista è leggero sebbene le domande siano preparate e accurate. Weyergans non entra nei dettagli del rapporto col padre, argomento ancora difficile per lui. Con brio, spiega che tutti i suoi libri sono un misto di fatti realmente accaduti e inventati di sana pianta, motivo per cui non possono essere definiti “autobiografie”. Difatti, quando Chiara Valerio cita una frase di Sartre presente in Franz e François, lo scrittore ribatte divertito: “Questa frase è di Sartre? Davvero? No, non può essere di Sartre. Queste parole sono mie”. Insomma, l’accademico di Francia invita con ironia tutti i lettori presenti in sala a non prendere sul serio tutto quello che inserisce nei suoi romanzi.
Ciò che mi ha colpito è stato venire a conoscenza della presenza costante dell’autore nella fase di traduzione del libro in italiano: la divisione in capitoli e la scelta lessicale sono state seguite passo dopo passo da Weyergans. Per non parlare, tra l’altro, della difficoltà nel tradurre il gioco di parole nascosto nel nome dello psicoanalista Zscharnack. Lo scrittore, inoltre, fa notare di essersi reso conto della presenza e dell’importanza che ha avuto il Bel Paese all’interno del testo, proprio seguendo il percorso traduttivo in italiano.
L’intervista si chiude sempre in tono ironico quando Weyergans ammette di essere sempre in ritardo nel consegnare i suoi manoscritti: “Ammiro chi riesce a pubblicare due o tre romanzi all’anno. Poi, però, smetto di ammirarli quando li leggo”. L’incontro è concluso, scendo le scale di Piazza di Spagna, continuo a sorridere tra me e me ripensando alle battute dell’autore sulla “finezza grammaticale” di Marguerite Yourcenar, accademica di Francia come lui. Prendo la metro per un pelo, stringo il libro al petto. Ho sempre sbagliato a pensare che conoscere l’autore di un libro che ho tanto amato possa rivelarsi una delusione. Al contrario, può essere una rivelazione.
Arianna Di Fratta
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