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CriticaLibera - Lacrime e sangue: note per una (dolente) rilettura de Il conte di Montecristo

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Anche per me, tutto è iniziato a Marsiglia: “Marsiglia, bianca, tiepida, animata; Marsiglia, la sorella minore di Tiro e di Cartagine, a loro succeduta nel dominio del Mediterraneo; Marsiglia, sempre più giovane quanto più invecchia”. È stata una folgorazione: solo guardando le pietre riscaldate dal sole, il brulicare di vita dell’area portuale, l’isola dello Château d’If battuta dalle onde in lontananza, ho iniziato a presentire come doveva essere davvero la città descritta da Alexandre Dumas. Ho provato un insopprimibile bisogno, a distanza di circa dieci anni dalla prima volta, di rileggere Il conte di Montecristo, e l’ho fatto con uno sguardo nuovo ai luoghi e ai personaggi. 

È impressionante come il giudizio su un’opera letteraria possa cambiare con il passare del tempo, delle fasi della vita. Da adolescenti, eravamo tutti Edmond Dantès. L’identificazione con il protagonista dumasiano – giovane, irruente, idealista – rendeva più facile accettare il fascino maturo del conte di Montecristo, che con Edmond aveva in verità poco a che fare. Il conte era colto, sprezzante, disilluso. A tratti il suo contegno sfociava nell’arroganza e la sua ricchezza gli consentiva di proporsi in società con una sicumera e un’eccentricità che altrimenti avrebbero potuto essere mal tollerate. Eppure, su tutto, prevaleva l’attrazione, il carisma dell’eroe romantico e sofferente che seduceva anche chi, a differenza del lettore, non sapeva nulla dei suoi trascorsi:

L’abbiamo già detto: fosse per un prestigio fittizio, fosse per un fascino naturale, ovunque si presentasse il conte attirava l’attenzione. Non era il suo abito nero, di taglio impeccabile ma semplice e senza decorazioni; non era il gilet bianco privo di qualunque ricamo; non erano i pantaloni attillati che ricadevano su un piede elegantissimo, ad attirare l’attenzione: erano la sua carnagione pallida, i capelli neri ondulati, il viso calmo e puro, l’occhio profondo e malinconico, e infine la sua bocca disegnata con una finezza meravigliosa e che assumeva così facilmente l’espressione di una severa indignazione, ad attirare l’attenzione di tutti su di lui. Potevano esserci uomini più belli, ma non certamente più significativi , ci si conceda l’espressione: tutto nel conte voleva dire qualcosa e aveva il suo valore; perché l’abituale concentrazione aveva impresso ai suoi tratti, all’espressione del viso e al più insignificante dei suoi gesti, un’espressività e una fermezza incomparabili.
 
Oggi, adulti, riguardiamo al testo con un distacco che ci sorprende. Proviamo ancora simpatia e compassione per l’ignaro Edmond, ma non possiamo più non pensare che, dopotutto, quel ragazzo sia morto in carcere. Quello che riesce a fuggire dalle segrete, dopo quattordici anni di prigionia, non è più lo stesso uomo che vi era entrato. L’incontro salvifico con l’abate Faria lo ha elevato al di sopra della propria posizione, al di sopra della scarsa cultura, ma sono state la rabbia e il rancore a cambiarlo del tutto, ad uccidere l’innocenza per lasciare spazio ad un’età adulta segnata dall’inesorabilità del pensiero e dell’azione. Ciò che rendeva umano Edmond erano i legami, di sangue e di cuore, le radici che lo facevano appartenere ad una precisa realtà, mentre il conte di Montecristo ne sembra del tutto privo: lui non ha vere amicizie, se non quelle imposte dalle convenzioni sociali, la sua identità è sfuggente, non riconosce nessuna patria. Ogni persona che gli si avvicina deve essere sottoposta al vaglio di un giudizio implacabile, e raramente ne esce indenne. La descrizione che egli dà di se stesso in una delle sue prime apparizioni parigine suggestiona, ma rende difficile, anche per i lettori che lo hanno seguito fin dall’inizio, riconoscere Edmond sotto la nuova maschera indossata:

I regni dei re sono limitati: da montagne, da fiumi, da costumi diversi, da lingue diverse. Il mio regno è grande come il mondo, perché non sono né italiano, né francese, né indù, né americano, né spagnolo: io sono cosmopolita. Nessun paese può dire di avermi visto nascere. Dio solo sa quale contrada mi vedrà morire. Adotto tutti i costumi, parlo tutte le lingue. Voi mi credete francese, non è vero, perché parlo il francese con la vostra stessa facilità e purezza? Ebbene, Alì, il mio nubiano, mi crede arabo; Bertuccio, il mio intendente, mi crede romano; Haydée, la mia schiava, mi crede greco. Dunque capirete che non essendo di nessun paese, non chiedendo protezione a nessun governo, non riconoscendo nessun uomo per mio fratello, non uno solo degli scrupoli che fermano i potenti, non uno solo degli ostacoli che paralizzano i deboli, può fermarmi o paralizzarmi. Ho soltanto due avversari, non dirò due vincitori perché riesco a sottometterli con un po’ di tenacia: la distanza e il tempo. Il terzo, e il più terribile, è la mia condizione di uomo mortale.
Abbiamo sempre letto Il conte di Montecristo come una storia di vendetta, oggi ci rendiamo conto che si tratta soprattutto di una riflessione sui legami familiari, sui padri e sui figli, sul riscatto che – non concesso agli uni – può invece interessare gli altri. Nel romanzo di Dumas i padri sono irredimibili e irredenti: il pavido e meschino Danglars, il tracotante conte di Moncerf, l’ambizioso e inclemente Villefort; le uniche eccezioni sono i modelli positivi rappresentati dal vecchio Dantès e dall’onesto armatore Morrel, che fungono da contrappunto virtuoso al dilagare del male. Per i figli, invece, c’è speranza. Sono loro a riscattare le sorti dei padri. È il loro sguardo incorrotto a comprendere la verità, una verità che anche Edmond dovrà suo malgrado riconoscere e interiorizzare, ovvero che le colpe dei padri non ricadono sui figli. Il primo a formulare ad alta voce questo pensiero è Beauchamp, intellettuale onesto e amico sincero, rivolgendosi ad Albert di Moncerf (“Albert, gli errori dei nostri padri, in questi tempi di azioni e reazioni, non possono ricadere sui figli”), lo ribadisce la voce limpida e sensata di Valentine di Villefort (“Ma – disse timidamente Valentine, – il disonore del padre non ricade sul figlio! Mi sembra che il signor Albert non sia responsabile di tutti i tradimenti del generale”). Ma il conte di Montecristo resiste ostinatamente a tale consapevolezza, poiché il ruolo che si è autoimposto gli annebbia la vista ed offusca la ragione: egli si fa interprete della Provvidenza di Dio, giustiziere che dispensa vita e morte ad amici e presunti nemici. In un primo momento la sua mano implacabile colpisce indifferentemente chiunque appartenga alla progenie dei suoi passati accusatori: i figli risultano colpevoli quanto i padri per il solo fatto di appartenere ad una razza maledetta. Il conte lo ripete ostinatamente, avvalendosi del supporto legittimante dei testi biblici e opponendo l’autorità divina alla voce del sangue con cui Mercedes, un tempo amata e ora moglie del suo rivale, si reca da lui a implorare pietà per Albert: “«Vendicatevi, Edmond! – gridò la povera madre, – ma vendicatevi sui colpevoli; vendicatevi su di lui, vendicatevi su di me, ma non su mio figlio!» «È scritto nel Libro sacro – rispose Montecristo, – ‘Le colpe dei padri ricadranno sui figli fino alla terza e alla quarta generazione’»”. Solo di rado le sofferenze inferte a chi non ha colpa smuovono la sua coscienza, facendogli percepire nitidamente che, a differenza di quel Dio nel nome del quale dice di agire, qualcosa può sfuggire al suo controllo:

“Vedete – disse con voce appena alterata, – vedete come Dio sa punire della loro indifferenza gli uomini più presuntuosi e insensibili […]. Io che stavo a guardare, spettatore impassibile e curioso, gli sviluppi di questa lugubre tragedia; io che, simile all’angelo del male, ridevo del male che fanno gli uomini, al riparo del segreto (ed è facile mantenere il segreto quando si è ricchi e potenti), ecco che a mia volta mi sento morso dal serpente del quale spiavo il tortuoso cammino, e morso al cuore!” 
Se il Romanticismo europeo è il movimento letterario dell’irrompere delle passioni, della gioventù ribelle, del tumulto dei sentimenti, una volta cresciuti lo si affronta con maggiore fatica, con un diverso spirito etico. Al lettore adulto il conte di Montecristo appare a tratti cinico, più spesso sadico. Non solo nei confronti dei nemici, ma anche degli amici. Anche quando ha l’opportunità di fare del bene aspetta sempre fino all'ultimo, fino a un attimo prima della rovina irreparabile, e solo gli incastri miracolosi dell’intreccio fanno sì che tutto funzioni, che la tensione drammatica crescente si sciolga nel lieto fine. Persino a poche pagine dalla conclusione, di fronte a Maximilien Morrel che più volte gli ha già dato prova del proprio valore e della propria devozione, il conte dubita che lui sia “abbastanza infelice per meritare la felicità”. Ancora una volta dunque il bene che vuole elargire non è gratuito, ma frutto di un calcolo, di un gioco di potere, e a questo scopo tenta il giovane offrendogli tutte le proprie ricchezze. Solo quando Maximilien rifiuterà sdegnosamente, chiedendo la morte nell’impossibilità di vivere senza la propria amata, Valentine gli verrà restituita.  La conversione di Edmond arriva, ma tardivamente, e appare se non in contraddizione quantomeno poco coerente con l’agire precedente:

“Dite all’angelo che veglierà sulla vostra vita, Morrel, di pregare qualche volta per un uomo che, come Satana, si è creduto per un attimo uguale a Dio, e che ha riconosciuto, con tutta l’umiltà di un cristiano, che la suprema potenza e l’infinita sapienza risiedono nelle sole mani di Dio. Forse queste preghiere addolciranno il rimorso che porta con sé, in fondo al cuore”.
L’esito di tali scelte narrative è che, laddove il lettore giovane si sentiva appagato dalla distribuzione di premi e punizioni che ripristinava il corretto ordine delle cose, valorizzando i giusti ed umiliando i malvagi, il lettore più maturo (o recidivo, come nel mio caso) ne esce terribilmente malinconico. Perché l’impressione complessiva è che nel romanzo non ci sia alcun vincitore: i cattivi sono stati eliminati dalla scena (chi si suicida, chi impazzisce, chi muore violentemente, chi viene incarcerato, chi ridotto in uno stato di abbrutimento e povertà), ma la durezza del castigo invita alla compassione più che ad una giusta soddisfazione; i buoni sono generalmente premiati, ma portano su di sé il marchio doloroso e indelebile degli eventi (su Valentine pesa la morte dei parenti amati, su Albert e Mercedes il disonore, su Eugénie Danglars la cattiva fama legata al matrimonio fallito e alla sua fuga in abiti maschili); e, soprattutto, chi aveva sperato di riconoscere infine Edmond Dantès sotto le vestigia del conte di Montecristo rimane deluso, perché a svanire all’orizzonte, nello sfumare delle ultime pagine, non resta che il conte, che si concede una seconda possibilità di vivere e amare con la bella Haydée, a dimostrare se ancora c’erano dubbi che la giovinezza e la pace perdute non possono mai essere completamente recuperate.
Carolina Pernigo


Anche Giulia Pretta ha letto e recensito per voi Il conte di Montecristo: leggi qui. Per le mie osservazioni ho fatto riferimento a Alexandre Dumas, Il conte di Montecristo, traduzione di Lanfranco Binni, Garzanti, 2011 (ed. digitale).