Miracolo in libreria
di Stefano Piedimonte
Ugo Guanda Editore, 2015
pp. 74
€ 7 (cartaceo)
C’è bisogno di racconti. Letture brevi, ben limate, che durino lo spazio di un viaggio, da leggere tutte d’un fiato. Miracolo in libreria, di Stefano Piedimonte (di cui potete leggere l’intervista e la recensione del suo L’assassino non sa scrivere), ne raccoglie due. Il protagonista del primo racconto è un libraio in difficoltà, una storia che purtroppo ultimamente sentiamo spesso. Questa comincia con dei libri di cucina esposti in vetrina al posto di romanzi succosi.
«Una sera, dopo diversi giorni di mancati incassi, aveva tolto tutti i "suoi classici" dalla vetrina, tutti i romanzi che per tanti anni si era sforzato di tramandare come se fossero i canti di un trovatore, aveva detto "fottetevi", e aveva infarcito la sua vetrina di storielle per signore annoiate e manuali di pessima cucina».Aldo è un libraio vecchia maniera, che non riesce ad arrendersi alla crisi della lettura:
«Fermarsi a leggere un libro» aveva detto anni prima «è sempre un atto di ribellione. Vuol dire piantare i piedi per terra e fottersene, prendersi gioco della propria finitezza. E questa è una cosa contro, assolutamente contro le mode, contro i tempi che corrono, contro le lancette dell’orologio. Contro le cazzate».
Chiama gli avventori della libreria lettori, «se li chiami clienti ti licenzio», intima al suo aiutante, crede che il suo mestiere consista nel soddisfare i desideri dei lettori, imparando a conoscerli; non è privo di senso dell’umorismo, nonché della disillusione di chi vede assottigliarsi il numero di lettori forti. Per questo, quando entra in libreria una giovane, bella ragazza che – ne è certo– ha rubato un romanzo straordinario, sebbene del tutto sconosciuto, perde la testa per lei. L’aspetta, cercando il suo volto tra quelli dei passanti, dalla vetrina. Nonostante abbia una moglie.
L’atmosfera del racconto è malinconica, ma mai cupa, perché non manca l’umorismo, tratto che invoglia a proseguire la lettura; gli altri sono la curiosità di sapere come andrà a finire al libraio con la testa altrove e uno stile scorrevole, con dei guizzi, e non piatto come spesso capita di leggere, ultimamente. La prosa di Piedimonte è corposa.
Il secondo racconto è legato al primo in un modo che il lettore scopre piacevolmente. Ha un andamento diverso, più ritmato, una lingua più connotata geograficamente, tipica del nord Italia.
«Appendersi a un sogno m’è parsa sempre una gran vaccata. Il Bardo lo diceva a modo suo, siam fatti della stessa sostanza di cui son fatti i sogni, ma è una sostanza che non pagherei due soldi al chilo, e quindi che senso ha aggrapparsi a una cosa fragile quanto te?»
Stavolta non è un narratore onnisciente a raccontare i fatti, ma la stessa voce del protagonista, con la linea ondulata del suo pensiero, che si snoda attraverso domande, frasi più brevi. Del personaggio sappiamo poco, se non che si trova su un treno, dove conosce un certo Nino, che gli racconta fatti molto importanti e molto intimi della sua vita, come sembra sempre naturale fare con gli sconosciuti.
Il protagonista, a un tratto, prende la decisione di saltare per andare incontro alla vita; tira il freno, saluta Nino e via.
«Corsi nei campi col sorriso e col fiatone, l’aria fredda mi gelava i denti. Cosa facesse lui non saprei dirlo, ma avevo la certezza, scappando come un diavolo, di tenerlo vivo, e che lui, fuggendo su quel treno, tenesse vivo me».
Un imprevisto che costringe un personaggio ad abbandonare la sua condizione di partenza rimane un ottimo espediente per dare una svolta picaresca a un racconto. E così Piedimonte conduce il lettore per i boschi, verso case solitarie dove il nostro protagonista senza nome chiede ospitalità in cambio di lavori manuali.
«Viaggiare per boschi è la cosa più bella, se uno sa goderne».
Durante le sue peregrinazioni si imbatte in un gruppo di persone sedute attorno a un falò. Sarà per questo, per la luna, per il vino o per la campagna, che a questo punto si sente un’eco pavesiana tra le pagine di Piedimonte. Lo scenario è quello dei raduni di sconosciuti con cui non ci si sente più soli; dove c’è solo una donna che attira le attenzioni su di sé, inevitabilmente.
«Tarek si mise al posto di Miriam, bevve una sorsata di quel vino di campagna e mi passò la bottiglia. Mi parve scortese chiedergli il passato, perché un egiziano si trovasse lì, cosa ci facesse a bere vino e a imbrogliare la notte con altri quattro e adesso anche con me».
Ognuno porta con sé la propria storia e raccontarla davanti al fuoco è solo l’evoluzione naturale e piacevole di una trama con dei personaggi attorno a un falò, e nemmeno qui manca l’ironia. L’elemento di disturbo, l’imprevisto, è una pistola carica.
«Girò altro vino, Tarek si passava la pistola da una mano all’altra, eravamo ubriachi, e una cosa che non devi avere a fianco quando sei ubriaco è la pistola. Un’altra è la donna, ma per motivi diversi. Noi comunque ce le avevamo entrambe.
Lorena Bruno
@Lorraine_books
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