La ruga del cretino
di Andrea Vitali e Massimo Picozzi
Garzanti, 2015
pp. 354
€ 16,40
Il 17
settembre 2015, in occasione della tredicesima edizione del Tocatì, il Festival
Internazionale dei Giochi in Strada, Andrea Vitali è venuto a Verona a parlare
del suo ultimo libro, Le belle Cece.
Affascinata dall’eloquio vivace e dal ben noto talento aneddotico dello
scrittore, ero risoluta ad acquistare e farmi autografare il volume in
questione, quando una signorina dal pubblico ha posto una domanda su La ruga del cretino. Sono così venuta a
conoscenza di questo romanzo meno conosciuto, scritto a quattro mani da Vitali
con il criminologo Massimo Picozzi. Cinque minuti dopo, uscivo dalla Sala
Farinati della Biblioteca Civica tenendolo sottobraccio (La ruga del cretino, non Andrea Vitali, purtroppo).
Ciò che incuriosisce
maggiormente in merito a quest’opera è il fatto che essa sembri discostarsi dalle solite (seppur sempre amate) cronache bellanesi. La storia
si colloca infatti in una zona di confine, sia nella produzione dell’autore che
nell’ambientazione privilegiata. La vicenda ha inizio il 5 agosto 1893 in un
paesino – Lezzeno – che si trova vicino a Bellano, ma che Bellano non è, e si
sviluppa coinvolgendo attivamente diverse e ben più grandi città italiane, come
Pavia, Torino e Milano. Mutano dunque parzialmente le coordinate
spazio-temporali, anche se l’esistenza paesana rimane l’oggetto prediletto
della prosa vitaliana.
Anche l’argomento risulta inusuale, andando a sfiorare ambiti inediti,
come il mondo dell’occultismo e quello della psicopatologia criminale. Le beghe
del contado – che ruotano intorno alla famiglia della Serpe e dell’Arcadio,
perennemente osteggiati dalla maligna Perseghèta e immancabilmente preoccupati
per la figlia Birce, talvolta preda di misteriosi spaesamenti e inquietanti
assenze – incontrano così la Storia vera, con un procedimento narrativo che non
è nuovo a Vitali, ma che riceve qui un’importanza decisiva a fronte della
statura storica dei personaggi coinvolti.
Protagonisti della vicenda, tanto quanto i piccoli antieroi
quotidiani di cui è sempre così ricca l’opera di Vitali, sono Cesare Lombroso e
i suoi collaboratori, in particolare la figlia Gina e il collega e discepolo
Ottolenghi. La ricostruzione è precisa e le figure acquistano spessore grazie
alla competenza di Picozzi, che pure deve accettare qualche compromesso. Lo
racconta Vitali nell’incontro veronese (e mai luogo fu più appropriato, se si
considera che proprio a Verona nacque Cesare Lombroso nel 1835): davanti alla
proposta di scrivere per la prima volta una vicenda a quattro mani, due sono state
le condizioni poste dallo scrittore bellanese, ovvero che ognuno dei due autori
avesse potere decisionale sulla parte che gli competeva senza mettere mani sull’altra,
e che Picozzi accettasse – contro la verità storica – di portare Lombroso a
Bellano.
E così, nella suggestiva cornice di Villa Alba, alle periferie del
paese, si incontrano le sorti di tutti i personaggi – quelli realmente esistiti
e quelli creati sapientemente per l’occasione. Obiettivo della riunione è
scoprire l’identità di un feroce serial killer che uccide giovani donne
lasciando sui loro cadaveri sibillini messaggi aritmetici. L’antropologia
criminale, cui Lombroso cerca di dare credibilità, si scontra con il fascino
esoterico delle scienze occulte, incarnato dall’ambiziosa Eusapia Palladino,
spiritista celebre in tutta Europa sul finire dell’Ottocento.
E, se in un primo momento pare che le scienze esatte debbano trionfare
sull’inspiegabile, il titolo stesso – che fa riferimento in modo scanzonato
alla fisiognomica teorizzata da Lombroso – mostra che in fondo le cose stanno
diversamente. La ruga del cretino, infatti, è quella di chi non sa vedere la
verità oltre la logica, di chi non accetta che non tutto possa essere
inquadrato all’interno di rigidi confini, di etichette precise.
Non si può proseguire oltre per non rovinare la sorpresa. Bisogna
osservare però che un’idea originale e una trama accattivante non riescono a
salvare del tutto il romanzo da un inizio troppo lento e un finale troppo sbrigativo.
Probabilmente obiettivo degli autori era proprio realizzare un’impennata conclusiva,
un’accelerazione rocambolesca degli eventi; tuttavia, giunto all’ultima pagina,
il lettore si ritrova vagamente insoddisfatto, desideroso di saperne di più. E
inizia a chiedersi se proprio questa impossibilità di trovare risposte non sia
in fondo la morale della storia.
Carolina Pernigo