Due anni, otto mesi & ventotto notti
di Salman Rushdie
trad. Lorenzo Flabbi
Mondadori, 2015
Questa storia inizia nel modo più bello in
cui può iniziare una storia. Una jinnia,
la creatura di un altro mondo, della stessa stirpe del genio della lampada, trova
una «fessura tra i mondi» e si presenta alla porta di un vecchio filosofo andaluso. Per pura curiosità: i jinn non conoscono l’amore,
conoscono solo i piaceri del sesso, ma la mente di quell’uomo l’affascina. La jinnia diventa moglie del filosofo, gli
dà numerosi figli e piaceri infiniti, prende per lui un nome umano: Dunia. Gli
chiede in cambio solo delle storie. Storie che non sono storie, perché l’uomo è
un filosofo, non un romanziere, e per di più un filosofo caduto in disgrazia: il suo più grande avversario ha trionfato pubblicando un libro che s’intitola
proprio L’incoerenza dei filosofi.
Il filosofo che non poteva filosofare temeva che i suoi figli ereditassero da lui le tristi caratteristiche che costituivano al contempo il suo tesoro e la sua dannazione. «Essere ipersensibile, lungimirante e dalla lingua lunga» disse «significa sentire con troppa intensità, vedere con troppa chiarezza, parlare con troppa libertà, e dunque essere vulnerabile in un mondo che si crede invulnerabile, comprendere la mutevolezza delle cose in un mondo che si crede immutabile, intuire prima degli altri ciò che accadrà, sapere che la barbarie si sta abbattendo alle porte del presente laddove gli altri abbarbicano a un passato ormai vuoto e decaduto. Se i nostri figli sono fortunati erediteranno soltanto le tue orecchie. Ma siccome è innegabile che siano anche miei, probabilmente penseranno troppo e troppo presto, incluse cose che non è permesso né pensare né sentire.»
Il filosofo si chiama Ibn Rushd: in Occidente
lo conosciamo come Averroè. Quel che può raccontare alla sua insaziabile Dunia
è la bellezza della coerenza e della ragione. Attraverso queste parole lei
impara l’amore, e s’innamora di tutto il genere umano.
Basta un po’ di matematica: Due anni, otto mesi & ventotto notti
non sono altro che mille e una notte. L’ultimo libro di Salman Rushdie,
tuttavia, non è certo una riscrittura dell’antica raccolta di fiabe arabe: è
qualcosa di meno e qualcosa di più. La storia di Ibn Rushd e di Dunia non è che
il punto di partenza di un intricato tessuto di storie, raccontate con il
doppio filtro della distanza (tutto il resto si svolge mille anni dopo gli
amori di Dunia e Ibn Rushd) e dell’ironia (il narratore è un sornione cronista
del futuro, un futuro molto lontano).
Delle Mille
e una notte Rushdie ha assimilato sicuramente la tecnica narrativa costitutivamente disorganica,
che procede per giustapposizione e passa di storia in storia perché un vento,
una parola può imprimere una direzione diversa al racconto (roba a cui siamo non abituati,
noi che la novella l’abbiamo conosciuta attraverso le strutture modulari e
simmetriche del Decameron di Giovanni
Boccaccio: ma pensate piuttosto ad Ariosto, e all’elmo di Ferraù che rotola
ancora perduto nel bosco). E di più, l’ha esplicitamente trasformata, come solo
lui sa fare, in una esplicita marca della contemporaneità.
Non aspettatevi
alcuna forma di linearità narrativa. Né «realismo magico», etichetta troppo
stretta. Aspettatevi caos, trionfante caos. Magia pura, tutt’altro che
realismo. Il conflitto tra jinn
oscuri e genere umano trasferisce su un piano fantastico la querelle che nel XI secolo aveva portato ai
ferri corti Ibn Rushd e il suo avversario Al Ghazali, la lotta tra gli
estremisti di ogni tipo – specie quelli religiosi, alla critica dei quali
Rushdie riserva sempre un’attenzione particolare – e chi ancora crede nella
ragione. Aspettatevi, soprattutto, di leggere un’allegoria, sgargiante nella propria
fantasmagoria, di cosa succede quando il sonno della ragione serpeggia per il
mondo. I jinn oscuri hanno nomi
favolosi e comici – ho un debole per Ruby Succhiasangue, ma il mio preferito
resta comunque Zumurrud il Grande – ma non sono altro che incarnazioni (parola
grossa, perché Rushdie ce lo spiega bene, i jinn
sono fatti di fuoco) dell’irrazionalità nella sua formulazione più ruggente.
Perché Rushdie lo
sa, e anche noi lo sappiamo: nei nostri telegiornali non si parlerà certo di
uomini che improvvisamente cominciano a galleggiare a mezz’aria, o di bambine
trovate al centro di una tempesta, ma si parla, questo sì, di Paesi assoggettati a divieti senza senso, a radicalismi di questo o quel segno. In Due
anni, otto mesi & ventotto notti tutto questo è opera dei jinn oscuri. E come sempre in questi
racconti, le risposte arrivano dagli esiliati, dalle creature ibride e senza bandiera, da chi si colloca ai margini quel tanto da toccare l'altro, conoscerlo, mescolarsi a lui. Arrivano da Dunia, la principessa
fatata che si è innamorata di un filosofo e dei suoi libri, imparando da lui l’amore e
la ragione (non smetterò mai di ripetere quanto sia bello che le due cose siano in questo libro profondamente intrecciate e mai in contraddizione). Arrivano, le risposte, dai suoi sterminati figli sparsi per il mondo, quella
stirpe che il suo Ibn Rushd chiamava ironicamente Duniazát. Uno di questi figli, Mister Geronimo, giardiniere
esiliato dal suo paese e dalla gravità, lo porterò sempre con me come uno dei
personaggi più cari della mia storia di lettrice.
Laura Ingallinella
@lauraingalli