Un pedigree
di Patrick Modiano
traduzione di Irene Babboni
Einaudi, 2006 (2005)
pp. 81
€ 10
Sono imbarazzato ma arrivo con un anno di ritardo. È già storia il Nobel del 2015 e io invece riporto le lancette a dodici mesi fa. Patrick Modiano. Cose strane, alchimie imprudenti dovute al giorno dell’assegnazione del Nobel, ovvero il 9 ottobre, il mio compleanno, e all’albero genealogico: il padre era un ebreo francese originario della Toscana. Aria di casa.
Le motivazioni
del premio: «A Patrick Modiano per l’arte della memoria con la quale ha evocato
i destini umani più inafferrabili e svelato la vita reale durante l’Occupazione».
E qui siamo dalle parti di Vichy. Proprio la
figura paterna riveste la giusta dose di ambiguità, perché oltre a essere
un uomo d’affari ebreo, il babbo di Modiano è in odore di collaborazionismo, oltreché
personaggio ricorrente nella narrativa del Nobel per la letteratura.
Il libro che mi
sono procurato, perciò, breve ma da qualche parte bisogna partire, contavo
affondasse nell’arte della memoria. E
in effetti è così: Modiano cerca di risalire
il corso della sua esistenza grazie agli avvenimenti accaduti fino alla
maggiore età, con attenzione anche a definire la vita dei genitori.
Ma quando si
affronta da lettori un tema come la memoria è lecito attendersi grande
coinvolgimento. Lo scrittore diventa una cartina di tornasole di accadimenti
che generano, almeno in lui, emozione, perfino giudizi di valore. La memoria riporta
a galla anfratti che non lasciano indifferenti, spesso emergono ferite, se non
piaghe non rimarginabili. Modiano tratta
invece la memoria come un medico che annuncia al paziente un anno di vita,
poi concede al massimo una stratta di mano.
Il tono è asettico e se le modalità di presentazione del passato sono minuziose, non emergono connotazioni emotive né giudizi sulle persone. Eppure ce ne sarebbe di materia di sfogo: il rapporto con il padre, di particolare durezza, un’infanzia e un’adolescenza passate in collegi francesi o in affidamenti a persone a lui sconosciute. Ma non si rinuncia al distacco, non si può sapere quali siano, in realtà, le emozioni di questo ragazzo che, oramai adulto, pone sulla soglia del ricordo quei determinati momenti che sembrano carichi di dolore. Un dolore sul punto di erompere senza che questo accada. La lezione che se ne può trarre è che i fatti sono davvero capaci di parlare da soli.
E non è che con la madre le cose vadano troppo meglio: una velleitaria attrice belga che si ritrova molte volte spiantata e al verde, rinnegata dal marito che prosegue nei suoi affari a dir poco oscuri. Semplicemente il risultato di questa operazione si presenta come una lista in cui non c’è spazio per odio e amore. Modiano dimostra una superiorità matura e inaspettata. Un’altra lezione: vanno bene i ricordi ma se sono un’eco lontana non giustificano alcuna perdizione nel nome del rancore.
Un fatto ci sarebbe a sfrangiare
questo tessuto ed è la morte del fratello Rudy, nel 1957, una cosa che tocca
Patrick Modiano nel profondo, l’unica
concessione che si fa a questo stato d’animo nel testo.
Forse quando si legge bisognerebbe stare attenti a partire dal titolo e se uno sceglie per il suo libro “Un pedigree”, appunto, l’elenco degli ascendenti paterni e materni – sì, è vero, di un animale ma non stiamo a sottilizzare – non potrà che trattarsi di un inventario. Da rivedere.
Forse quando si legge bisognerebbe stare attenti a partire dal titolo e se uno sceglie per il suo libro “Un pedigree”, appunto, l’elenco degli ascendenti paterni e materni – sì, è vero, di un animale ma non stiamo a sottilizzare – non potrà che trattarsi di un inventario. Da rivedere.
Marco Caneschi