All’inferno fa
freddo.
Racconti dal carcere
Racconti dal carcere
a cura di Antonella Bolelli Ferrera
Rai Eri, 2015
pp. 368
€ 12,00
Sezione adulti
Nel sentir
parlare del Premio letterario Goliarda Sapienza, che raccoglie e valorizza i
migliori racconti scritti dai detenuti nelle carceri italiane, la mia prima
reazione è stata di curiosità non certo libera da un moderato scetticismo. Mi
sono offerta di leggere il volume attirata dall’idea, più che dalla speranza di
imbattermi in una buona prova di letteratura. Mi aspettavo che, dato il
contesto in cui si trovano inseriti gli scriventi, la valutazione sarebbe stata
indulgente, che ad essere giudicati sarebbero stati i casi umani piuttosto che
i racconti. Mi sbagliavo.
All’inferno fa freddo è un’opera forte, importante.
I venti testi che compongono la sezione degli adulti differiscono per forma e contenuti,
ma sono accomunati da un’uguale istanza comunicativa: la scrittura diventa
occasione di libertà, non tentativo di autolegittimazione. Non si legge nelle
storie un desiderio di suscitare compassione. La violenza viene presentata come
qualcosa di banale, ovvia conseguenza di una serie di eventi che in parte
derivano da scelte errate e in parte trascendono la volontà del colpevole, e
per questo sconcerta tanto di più il fruitore impreparato. Lo denuncia Stefano
Lemma, autore del racconto secondo classificato: “Sono gli eventi che cambiano
la vita, e la vita cambia le persone” (42). La tecnica della cronaca
imparziale, quasi asettica, viene spesso adottata, e ferisce in quanto lascia intravedere
sotto la superficie abissi di dolore non descritti, non esposti.
È forse sui racconti non premiati che vale la pena soffermarsi: quei
racconti in cui minore è l’elaborazione retorica, minore la mediazione, e dunque ancora maggiore l’impatto
emotivo. Sono i momenti in cui lo stile di indebolisce quelli in cui più
emerge l’urgenza del narratore, il bisogno pressante di dire di sé e della
propria condizione di recluso. Sono i momenti in cui c’è meno controllo sullo
stile quelli in cui si percepisce maggiormente una verità senza filtri, che
condanna magari sintassi e grammatica, ma graffia il cuore del lettore. A
questo impulso alla riscoperta di sé si deve la predominanza quasi assoluta
della narrazione in prima persona, che porta ad esporsi senza vergogna, senza
reticenze, allo sguardo forse implacabile dell’altro, che pure proprio per
questo si scopre comprensivo, simpatetico, anima affine nonostante l’iniziale ritrosia.
Ciò che appare evidente nei testi non è mai un desiderio di
rinnegare ciò che si è o le azioni compiute, quanto la volontà di sottolineare
che esiste una possibilità di cambiamento, che la reclusione può tramutarsi, se
vissuta con consapevolezza, in un’occasione di crescita: “A differenza degli
oggetti senz’anima, noi abbiamo un vantaggio: il tempo passa e ci riscatta.
Altrimenti saremmo nient’altro che spurghi della società, giocattoli rotti,
anche noi saremmo oggetti senza funzione, dannati ed inutili” (114). In
queste parole tratte dal racconto di Federico
Marsi si intuisce il desiderio, comune a molti altri, di recuperare lo status
di individuo in un ambiente che tende alla disumanizzazione, a ridurre l’uomo
alla propria matricola. Il carcere diventa il luogo in cui si realizza un
percorso di ravvedimento e di riscatto, che passa attraverso la definizione - e
l’accettazione - di sé come delinquente. L’autore (o, come in questo caso, l’autrice)
spesso scopre di essere diventato quello che è, nel male ma anche nel bene,
grazie ai propri trascorsi:
“Certo, devo essere stata amata prima della loro cecità, prima del loro alcolismo, quando un gesto d’amore tagliò l’ormeggio ombelicale per farmi iniziare il viaggio della vita. Sarei potuta nascere regina o forse solo una ricca borghese, ma cosa sarei stata? Forse non avrei sentito quel che sento, l’inquietudine che mi produce il vento, […] l’alito del mondo nelle anime che vi tremano dentro… Forse sarei stata pigra e altezzosa, non docile né umile con quella forza che mi cresce nel cercare l’amore. Non sarei stata attenta con i miei figli. Non avrei avuto l’energia di resistere alle umiliazioni, mantenendo l’anima casta, sospesa come un bagaglio prezioso salvato dalle acque nel guado” (Mica Dolic, 265).
Ugualmente sferzanti nella
loro incisività sono del resto anche gli sporadici racconti scritti in terza
persona, in cui non è affatto minore il coinvolgimento dell’autore. Dall’ironia
e la leggerezza, con tanto di finale romantico a sorpresa, de “Il tempo siamo
noi” di Giuseppe Rampello alla trama elaborata e convincente de “L’ottavo
sacramento” di Sebastiano Primo; dalla perfezione stilistica di “La lunga
strada verso casa”, in cui Michele Maggio descrive magistralmente personaggi e
ambienti, creando un’atmosfera noir che rievoca locali fumosi e bicchieri di
whisky alla Raymond Chandler, fino ad arrivare alla “Storia di Ele” di
Alessandra Rosa. Vale la pena di spendere una parola su questo testo, uno dei
due soli femminili compresi nel volume, nonché grande assente dal podio dei
premiati tra cui avrebbe sicuramente meritato di trovarsi. Si tratta della cronaca
dolente ed autobiografica dell'incontro fugace di una carcerata, Ale (che altri
non è che l’autrice stessa), con una giovane donna che non riesce a sopportare
l’umiliazione della prigionia. La scrittura di Alessandra è consapevole e
dolorosa, senza fronzoli, efficace per la sua capacità di cogliere dettagli e
immagini con poche, pregnanti parole. Al centro del racconto si colloca l’idea
della solidarietà femminile di fronte alla morte, che cancella ogni differenza
di ruolo: straziante è infatti la scena che mostra la disperazione della guardia
carceraria con le unghie rosse spezzate mentre cerca di staccare Ele dalla
finestra a cui si è impiccata. La defunta viene privata dal mondo di fuori della
dignità di un nome o di un’identità (per i giornali è solo una “prostituta
nigeriana”), spetta allora a chi è dentro restituirle post mortem ciò che le è stato tolto, tramite il ricordo e un nome
che davvero la rappresenti (Ele, che in nigeriano significa “gazzella”). Forse proprio in questo
epilogo si può leggere la morale dell’intera raccolta: dietro alle mura del
carcere esistono persone e storie da raccontare troppo spesso dimenticate.
Tocca allora a chi è dentro farsi testimone, urlare la propria verità, lanciare
la propria matassa di parole oltre le sbarre, sperando che qualcuno la raccolga
e aumenti, grazie ad essa, in consapevolezza e umanità.
Carolina Pernigo
Sezione Minori e giovani adulti
“La prima volta è esperienza, la seconda è vita. È fondamentale cambiare le carte per vincere due volte allo stesso gioco. Bisogna avere un altro sguardo per amare ogni giorno la stessa persona. È essenziale cambiare vita, per vivere a pieno la stessa.”
Quando cresci in una realtà
ovattata, coccolata dalle persone che ami, libera di sbagliare e di scegliere
di ribellarti, non riesci nemmeno a immaginare che tuoi coetanei non vivano gli
stessi “drammi” quotidiani. Come concepire che, quando tu sei alle prese con
l’ansia per un’interrogazione di greco classico, proprio in quel giorno in cui
il tuo fidanzato ti ha chiesto di troncare, c’è qualcuno che si trova lontano
da casa, in crisi d’astinenza da cocaina, in una stanza separata dal mondo
esterno da due sbarre che lasciano entrare il sole con il contagocce? La tua
mente non riesce ad avere una tale fantasia. Eppure gli autori dei racconti
candidati al premio Goliarda Sapienza alla fantasia letteraria cedono senza
paure, scegliendo di affidare alla parola scritta il loro bisogno di libertà e
rinascita. Raffaele, Giulio, Coccinella, Fabrizio e Unknown scrivono brevi
estratti della loro esistenza con una lucida determinazione e capacità di
analisi che sorprendono vista la loro giovane età. Tutti hanno trascorso un
periodo della loro vita tra CPA e IPM o si trovano ancora in comunità di
recupero prima del ritorno a una vita che vogliono fortemente normale.
Proprio poco tempo fa riflettevo
sulle parole del protagonista dell’ultimo romanzo di Alain Mabanckou che rifiutava l’idea che un’infanzia vissuta tra violenza, tristezza e solitudine
influenzi il futuro dell’adulto del domani. Gli autori dei racconti partono da
questo presupposto e lo approfondiscono facendolo intimo, restituendolo al
lettore con la semplicità del loro stile di scrittura, che con la sua asciuttezza
scarnifica con evidenza la realtà. Secondo loro, la prospettiva della propria vita non è un percorso unico,
predeterminato e forzato; la vita è la possibilità che si ha di scegliere,
facendo tesoro del proprio passato, doloroso, difficile e crudo ma non per
questo elemento determinante. Unknown, autore di Double Face dice infatti:
“Non si nasce nella propria casa quasi mai,ci si trova,è dove sei libero,per sentirti come vuoi.Ora una cosa la devo dire, sarò sempre fiero del mio quartiere.Perché Noi non siamo quell’adesso,siamo tutti i secondi passatiche scorrono ancora dentro di noi.”
Il primo classificato del
concorso nella sezione minori dimostra una spiazzante maturità letteraria nel
raccontare la vita nella periferia romana ed esemplifica con chiarezza la
possibilità di un riscatto futuro. Giulio, secondo classificato con il racconto
Vivo o morto, lascia la Tunisia a 14
anni per fuggire a una vita di abbandoni; giunge in Italia (a Lampedusa che
scopre con sconforto non essere ancora “Italia”, isola di un’isola più grande
in cui trasformerà la sua tristezza in violenza) e qui troverà un nuova
solitudine negli istituti penitenziari minorili; solo in comunità riacquisterà
la fiducia nell’umanità e nel prossimo, incontrando gli angeli che gli
apriranno le porta del futuro:
“Qui il tempo trascorre facendo ogni giorno passi in avanti nel mio percorso di cambiamento. Ora so che, quando sbaglio, avrò la forza per rialzarmi. Ora so che quel viaggio con la morte è ormai per me soltanto un ricordo lontano.”
Questi, insieme agli altri
racconti (inclusi i non vincitori) sono perle di saggezza condensata sul
significato di libertà, che altra non è che la possibilità di essere migliori.
Per i giovani detenuti la scrittura, allora, diventa sinonimo di liberazione:
comunicare con il mondo oltrepassando i limiti fisici imposti dalle strutture
penitenziarie. Per questo mi sento di ringraziare il loro impegno due volte. La
prima per l’adolescente ignara che sono stata in passato, perché se avesse
letto le loro testimonianze avrebbe capito cosa significa vivere; la seconda
per la donna che sono adesso, per averle ricordato di non dimenticare mai che
la realtà non è solo quella visibile con gli occhi.
Federica Privitera