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Roma, 19 novembre 2015. All’Institut Français Centre Saint Louis l’aria è inevitabilmente tesa. Per quanto in una zona di ambasciate e di edifici parlamentari sia normale vedere numerose forze dell’ordine dispiegate in ogni angolo della strada, venir perquisiti all’ingresso di una biblioteca sembra davvero insolito; gli eventi parigini del 13 novembre sono freschi nella memoria e ad essere tesa non è solo l’atmosfera, ma anche i visi dei due autori. Pierre Van Hove è francese e Alessandro Tota vive a Parigi da molti anni oramai. Entrambi si trovavano in città durante gli attentati e sembra inevitabile toccare con loro temi come la paura, la guerra, la libertà durante un incontro il cui fulcro è un bellissimo graphic novel che racconta una Parigi stagliata sullo sfondo del crepuscolo delle avanguardie letterarie. Proprio in questo clima surreale l’arte svela tutta la sua bellezza: esiste qualcosa, più forte della paura e del terrore, in grado di trasformare un singolo momento in puro godimento per la mente. Stendhal lo descrisse in Roma, Napoli e Firenze (1817) con la dovizia e la destrezza di un scrittore; io nel mio piccolo lo definisco sommo piacere e serenità d’animo, l’arma pacifica più forte che abbiamo per combattere chi ci vuole impedire di vivere.
Quella del 2015 è la prima edizione del Festival de la Fiction Française in cui viene dedicata una sezione al graphic novel: il mondo del fumetto, che altro non è che un racconto narrativo che parla con i disegni, finalmente è inserito nel novero della letteratura. Il ladro di libri sembra calzare perfettamente questo ruolo: molti lo definiscono infatti una fantasia letteraria o un vero e proprio thriller. Luca Raffaelli (tra i massimi esperti italiani nel campo dei fumetti, autore di saggi e opere inedite) preferisce definire il testo un libro psicologico nascosto dietro una storia d’avventura, in grado di raccontare un tempo e un luogo con quelle mille sfaccettature che lo rendono esternamente difficile da intrepretare. Una delle possibili chiavi di lettura è quella della giovinezza, periodo di emozioni altalenanti e in bilico tra la ricerca di affetto e la necessità di trovare un posto nel mondo: Daniel Brodin (un cognome che francesizza l’italiano “brodino” ad accentuare la sua figura di macchietta) oscilla tra la gioia di aver raggiunto un obiettivo e il fatto di vederselo sfuggire di mano. Tuttavia c’è molto altro, come la volontà da parte degli autori di esprimere la vacuità delle ideologie e la perdita di senso etico in un’Europa che segue il proprio destino a seconda della convenienza e degli interessi.
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(L’intervista prende le mosse dall’incontro tra i due autori. Fino alla fine dell’incontro Alessandro Tota parlerà più a lungo di Pierre Van Hove, sempre raccolto sul suo taccuino a disegnare ininterrottamente, ndr)
Alessandro: Io e Pierre non lavoriamo secondo il solito rapporto sceneggiatore-disegnatore. Parliamo molto durante i nostri incontri, scoprendo di volta in volta cosa ci interessa. I percorsi prendono strade inaspettate (pensate che il progetto iniziale era quello di raccontare la beat generation): un giorno Pierre porta con sé il testo di Jean-Michel Mension, La Tribu, che contiene numerose interviste ai lettristi, l’ultima avanguardia insieme al situazionismo. Quello è il momento in cui è nata la storia. Il nostro metodo di lavoro procede di storyboard in storyboard che entrambi contribuiamo a sviluppare, senza una sceneggiatura scritta ma andando avanti con i disegni. A volte lui propone personaggi nuovi, altre volte io modifico i dialoghi e adesso non so dirvi chi ha pensato cosa. La lingua del testo è l’unico aspetto che può essere attribuito chiaramente a Pierre: solo un madrelingua francese avrebbe potuto dare la patina giusta per contestualizzare i dialoghi dei personaggi nel periodo storico.
Pierre: È vero, tutto è andato così. Io chiaramente ho dato un contributo forte a livello linguistico ma senza uno studio profondo della contestualizzazione, dello sfondo, dei nomi e dei luoghi non sarebbe potuto esistere un libro di questo livello. Avevamo proprio il chiodo fisso del rigore scientifico durante il nostro lavoro!
A centro di tutto il racconto vi è un personaggio mediocre:
A.: Brodin è nato di getto e non è mai cambiato: la scena di lui che corre uscendo dalla libreria è stata scritta in un pomeriggio ed è l’unica che è rimasta identica durante tutta la fase di scrittura. In realtà, comunque, Brodin non è semplicemente mediocre ma è una satira sul giovane intellettuale. C’è molto di me stesso in lui: io ho pensato a me a 19 anni e ho gonfiato a dismisura tutti gli atteggiamenti di quegli anni. Lauzier, autore di Diario di un giovane mediocre, che prendeva in giro gli intellettuali di sinistra dell’epoca, poi, è stato uno dei nostri punti di riferimento.
P.: L’unico personaggio positivo è Colette, la compagna di Brodin. Daniel è un personaggio simpatico che però è molto difficile da spiegare perché, pur avendo delle sue idee personali, in realtà interagisce a tal punto con gli altri da trovare il significato della sua vita nel resto del mondo. Un personaggio quasi astratto e senza consistenza, come una foglia che segue il vento, pur possedendo tutte le potenzialità per evolvere in piena autonomia.
Quello era un mondo diverso da quello di oggi, comunque. Non si ha più né la certezza di poter cambiare il mondo, né la voglia di farlo. Prima le avanguardie, poi i movimenti politici avevano l’obiettivo di cambiare la società. Nel graphic novel non solo Brodin e il suo gruppo, ma l’intera Parigi sembrano non avere un obiettivo ideologico fisso, come se tutti fossero in balia del proprio egoismo.
P.: Credo che un concetto che prima era molto fermo nella società era quello di considerare l’arte come lo spirito comunitario in grado di cambiare il mondo; adesso l’arte non ha più questo peso (e non è un caso se le avanguardie sono scomparse da cinquant’anni) e ha passato la palla a qualcosa di maggiormente artigianale. E quale forma di arte esiste più artigianale del fumetto?
A.: In questo momento il problema è di non voler rischiare: fare avanguardia significa rinunciare alla mediocrità piccolo borghese che restituisce, comunque, qualcosa di rassicurante. In più adesso l’arte è diventata un mestiere come un altro con cui poter fare soldi. All’epoca in cui abbiamo ambientato il nostro fumetto, il rifiuto del lavoro salariato era totale e convinceva gli intellettuali fino in fondo; per questo i nostri personaggi sono al limite con la criminalità: era così davvero.
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Alessandro e Pierre lavorano in un luogo particolare: un atelier di 50 mq condiviso da tanti artisti, dove ognuno, alla propria scrivania, compie il suo lavoro non disturbando gli altri ma condividendo con i coinquilini i momenti di pausa e di creatività. Un laboratorio di idee dove circolano influenze e suggestioni di qualunque tipo, ivi incluse le tecniche di disegno di matrice americana.
A.: Robert Crumb è l’iniziatore del fumetto underground, non più fumetto industriale me espressione personale pura. È stato tra i primi a scrivere un’autobiografia a fumetti (tra parentesi, è ossessionato dal sesso, da un tipo particolare di donne e dalla musica blues), sempre attento al realismo. Io e Pierre ci siamo trovati d’accordo su questo modo di fare disegno, diverso dal tradizionale fumetto francese di 40 pagine (come Tin Tin o Asterix & Obelix). È stata la base su cui costruire il nostro personale modo artistico. Ciò che ci interessa è che Crumb e gli altri non scrivono semplicemente di sé ma raccontano l’aspetto che sta dietro l’ossessione; un significato profondo, interno, che ci permette di fare satira così come abbiamo fatto ne Il ladro di libri. Chiaramente non prendiamo in giro solo l’atmosfera letteraria ma anche noi stessi!
P.: Disegnare per me è un’attività personale, un lavoro tutto mio e per questo mi considero un vero outsider. Considero il disegnatore quasi un eremita, un monaco copista che vive tutta la sua giornata nella solitudine della propria scrivania. Anche l’accesso al mondo dei fumetti è stato per me una mossa estremamente personale. Da Angoulême (patria del fumetto francese e sede del Festival international de la bande dessinée d'Angoulême, ndr) sono andato a Parigi non per disegnare ma per studiare filosofia. Sono entrato nel mondo dei fumetti per effrazione, quasi come un passeggero clandestino che ha da poco iniziato la sua attività.
Pierre e Alessandro sono al lavoro a un nuovo progetto di cui sono molto restii a parlare. Confessano solo il contenuto della prima vignetta: un uomo si sveglia in un’astronave indossando un paio di pantaloni vecchi e lerci e per questo decide di indossare una divisa alla Star Trek. Un’atmosfera lontana dal realismo a cui hanno abituati i propri lettori ma che, siamo sicuri, stupirà per la sua incisività.
Federica Privitera