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Francesco Permunian 1/ La polvere dell’infanzia: il peso dolceamaro del passato

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La polvere dell'infanzia
di Francesco Permunian
Nutrimenti edizioni, 2015

€ 15
pp. 160



La memoria costruisce la persona, eppure quando i ricordi si fanno scomodi – per felicità interrotta o per trauma subito – il passato diventa una torturante corona di spine che siamo obbligati a indossare. È questo triste copricapo che ossessiona Francesco Permunian da tempo e in  La polvere dell’infanzia e altri affanni di gioventù (Nutrimenti, 2015) lo descrive con uno sguardo sincero ed elegiaco, con la consapevolezza che un mondo scomparso si aggrappa alla sua penna per non svaporare nelle brume della palude.
L’autore polesano, trapiantato sul Garda, è riconosciuto sia da Silvano Nigro che da Cortellessa, sia da Maria Corti che da Massimo Onofri (per fare solo i nomi più blasonati) come una delle più originali voci del panorama italiano contemporaneo. Scrittore che rifugge sia dagli steccati di genere sia dai salotti buoni della cultura, Permunian si è guadagnato questi riconoscimenti solo con la potenza narrativa derivata da un’urgenza espressiva tangibile. Le sue opere sono caratterizzate da una gran mole di personaggi descritti con un tono grottesco che mette in risalto le piccolezze e le mostruosità, ma che al medesimo tempo ne svela anche l’umana disperazione. Un altro segno distintivo è la lingua che passa da un frequente vocabolario raffinato, che non disdegna il preziosismo, ad un registro sconcio, con influenze popolari.

In La polvere dell’infanzia si nota un tentativo di individuare la fonte del suo modo di scrivere e dei suoi temi. Se l’essere ossessionato da una moltitudine di fantasmi deriva dall’infantile carezza della morte che lo sceglierà come suo «confidente», il rigetto per una certa mondanità culturale (anche linguistica) avrà origine dai conflitti tra popolani e accademici discesi in Polesine negli anni Sessanta. Nella sua Cavarzere risiede la genesi del suo modo di valutare, vedere, vivere: lì è nato e lì sono immerse le sue radici che patiscono il dolore di una tensione eccessiva, quasi al limite della rottura.
Una ricerca delle origini piena di volti, tanto da avere le sembianze di un tormentoso culto dei defunti che dà senso a chi vive, perché proprio tramite loro l’autore si può raccontare: ogni singolo personaggio è, infatti, parte del processo di maturazione di Permunian, con un ruolo e un carattere preciso. Si potrebbe persino parlare di un romanzo di formazione eccentrico che, pur raccontando il classico periodo dall’infanzia alla partenza dalla terra natale, non mette al centro l’ovvio protagonista, ma chi ha una relazione con lui. Tutto un mondo si stringe alla penna del romanziere per non scomparire, ma parallelamente anche l’autore si lega ad esso per non perdersi, per non smarrire un’identità che si basa su ricordi che si liquefanno inesorabilmente. La tragedia dell’oblio incombe su un’intera comunità già martirizzata dall’esodo post-alluvione, ma soprattutto su Permunian che sembra bloccato nella palude della memoria e con essa sembra identificarsi.
Al fondo c’è una ricerca di senso che può passare solo attraverso la fissazione – maniacale e memorialistica – delle sofferenze della perdita: affrontarle fino ad avere nostalgia di esse. Un obiettivo che sembra raggiunto nella conclusiva raccolta di poesie in prosa: un ricordo penoso ma dolce, come a cullare fino all’accettazione il tormento dei cari lasciati indietro e persi per sempre. Perché al di fuori del sentire (in positivo o in negativo) ci sono l’apatia e l’inesistenza.