in

Francesco Permunian 2/ Ultima favola: realtà nevrotica e fantasmatica salvezza

- -
Ultima favola
di Francesco Permunian
Il Saggiatore, 2015

pp. 178
€ 16



Francesco Permunian ha plasmato una narrativa così singolare da sembrare un genere autonomo (come ha scritto Romano Fiocchi su Nazione indiana), che sta tra un raffinato umorismo di provincia e un realismo sordido, e Ultima favola (Il Saggiatore, 2015) ne è forse l’esempio più complesso e meditato, come prova la gestazione lunga una decina d’anni. Il romanzo sembra l’elaborazione di un lutto dove non regnano solo tristezza e malinconia, ma anche ridicolo, abietto e soprattutto grottesco, che vorrebbero produrre nel lettore ilarità, ragionamento e ripulsa.

La vicenda si svolge in Trentino negli anni Ottanta e il protagonista è un giornalista dell’«Eco delle Alpi» esperto in insignificanti fatterelli locali, Ottavio Denteamaro. Il cronista è reduce dalla remota e tragica perdita dell’amata ed è come bloccato nei ricordi, non riesce a vivere nella società e a rapportarsi a nulla se non con un profondo distacco e senso di vuoto, condizione che si riverbera anche sul fisico con imbarazzanti problemi digestivi e intestinali. Ottavio vivacchia costipato indagando sui pettegolezzi della zona, tentando malamente di rapportarsi con una normalità per lui irragiungibile: sembra un inetto di sveviana memoria, ma con un’attenzione al basso corporeo e alla fisicità tutta contemporanea. Lentamente nella sua esistenza si aprirà una piccola e sghemba speranza di affetto e serenità, prospettiva che si dovrà confrontare duramente con il fantasma della moglie che da tempo incombe su di lui. La vicenda è piena di divagazioni e piccoli avvenimenti, come d’altronde abbonda di personaggi colti da più o meno gravi manie e nevrosi raccontate nel dettaglio.

La trama però è un succoso pretesto per affrontare altro. Sono presenti, infatti, pesanti irrisioni della società culturale snob e omologata, una religiosità pervertita e svuotata di senso e, infine, un nichilismo allucinato. Strumenti dell’ironia su questi temi e, allo stesso tempo, sintomi di questo distacco da una qualsiasi prospettiva di senso che non sia la memoria, sono le anomalie riguardanti gli escrementi e il loro processo di eiezione, il sonno e il sesso. Descritti senza una morbosità compiaciuta questi tre aspetti si legano alla scrittura e al ricordo: una stipsi eccessiva come a non voler abbandonare il passato, che inesorabilmente viene però espulso in acuti accessi dissenterici dall’oblio; oppure l’impotenza che colpisce gli uomini ormai affetti da una sterilità non solo fisica, ma emotiva e concettuale, e che invece risparmia le donne, a volte bulimiche nella ricerca del piacere.
L’opera è sorretta da una tensione quasi dostoevskiana tra un evento che immobilizza il protagonista e vani tentativi di salvezza, che sembra sempre inarrivabile, anche perché nel mondo di Permuninan l’esistenza è ridicola e la religione bieco strumento di guadagno e di plagio delle masse. Tutto è sovvertito e sconvolto, solo i fantasmi hanno una consistenza e una coerenza che pretende serietà e dedizione. Ed è tramite l’immutabilità di essi che sembra poterci essere un rifugio, come una regressione all’origine e una conseguente rinascita. Eppure, un passato che è la ragione stessa del pantano può essere davvero un rifugio, o non piuttosto un annichilimento? In questa nostalgia patologica che acceca ogni prospettiva, non è espresso forse il medesimo morbo che colpisce l’Italia?