Lo ricordo (io non ho il diritto di pronunciare questo verbo sacro; un uomo solo, sulla terra, ebbe questo diritto, e quest'uomo è morto), e ricordo la passiflora oscura che teneva nella mano [...] Ricordo il suo volto taciturno dai tratti di indiano, singolarmente remoto dietro la sigaretta. Ricordo (credo) le sue mani affilate d'intrecciatore; ricordo presso queste mani un servizio da mate, con le armi della Banda Orientale; ricordo a una finestra della sua casa una tenda gialla, con un vago paesaggio lacustre. Ricordo chiaramente la sua voce; la voce posata, nasale e un poco lamentosa dell'orillero antico...
"Una lunga metafora dell'insonnia", scrive Borges a proposito di Funes, o della memoria, racconto che apre Artifici, seconda parte della raccolta Finzioni (1935-1944, Buenos Aires, SUR).
L'incipit è scandito dalla figura retorica della ripetizione, quel "ricordo" che ci introduce nel mondo del personaggio Funes, subito dipinto grazie alla memoria - non infallibile ma "imparziale" - del narratore che dice "io".
Un volto taciturno, quasi nascosto dietro la sigaretta, le mani affilate, la voce posata, nasale, come un lamento. È tutto qui Funes, non ci serve sapere molto altro, l'io narrante lo ha già raffigurato magistralmente.
Subito dopo arriva il contesto: siamo a Fray Benthos, capoluogo del dipartimento di Río Negro in Uruguay. Il narratore ci porta al suo primo incontro con Funes, "una sera di marzo o di febbraio del 1884". Un'enorme tempesta color ardesia ha oscurato il cielo, il giusto dono dopo una giornata soffocante. Il narratore è a cavallo, lungo una stretta strada, e a un certo punto arriva lui, Ireneo Funes. Ecco che torna il ricordo:
Ricordo le sue scarpe di corda; ricordo, contro la sterminata nuvolaglia, la sua sigaretta e il suo volto duro. Bernardo gli gridò, imprevedutamente: - Che ore sono, Ireneo? - Senza consultare il cielo, senza fermarsi, l'altro rispose: - Mancano quattro minuti alle otto, ragazzo Bernardo Juan Francisco-. La voce era acuta, burlesca.
Ireneo non frequenta mai nessuno e sa sempre l'ora come un orologio. Un dono inspiegabile, una criptica esattezza. Passano tre anni, nel 1887 il narratore torna a Fray Benthos e chiede di Funes, il "cronometrico Funes".
Mi risposero che era stato travolto da un cavallo selvaggio nella tenuta di San Francisco ed era rimasto paralizzato, senza speranza. Ricordo l'impressione di spiacevole stranezza che mi fece questa notizia: l'unica volta che l'avevo visto, noi venivamo a cavallo da San Francisco e lui camminava in alto [...] Mi dissero che non si muoveva dalla branda, gli occhi fissi su un albero di fico in giardino, o su una tela di ragno. Verso sera, lasciava che l'avvicinassero alla finestra.
Funes è un "eterno prigioniero", immobile, gli occhi fissi su un mondo che cambia.
Non senza qualche vanagloria, io avevo cominciato a quel tempo lo studio metodico del latino. Avevo nella valigia il De viribus illustribus di Lhomond, il Thesaurus di Quicherat, i commentari di Giulio Cesare e un volume spaiato della Naturalis Historia di Plinio [...] In un piccolo paese, tutto si viene a sapere; Ireneo, nel suo rancho sulla costa, non tardò a sapere dell'arrivo di questi libri anomali. Mi mandò una lettera fiorita e cerimoniosa [...] mi pregava di prestargli uno qualsiasi di quei volumi, insieme con un dizionario "per la buona intelligenza del testo originale, poiché ignoro ancora il latino [...] gli mandai il Gradus ad Parnassum di Quicherat e il volume di Plinio.
In queste citazioni fa la sua comparsa una parte della Biblioteca di Borges, quell'universo eccezionale, scandito da sequenze e confini spaziali di caratteri.
Mesi dopo, un nuovo incontro: il narratore torna da Ireneo per riappropriarsi dei volumi. Fa un viaggio dentro la sua casa, passa attraverso un primo patio lastricato, un secondo patio, una pergola, la totale oscurità: quasi un'iniziazione.
"Udì d'un tratto la voce alta e burlesca di Ireneo. Questa voce parlava il latino": ed è incanto.
Nel buio di questo rancho sulla costa risuonano le parole di Plinio, libro settimo della Naturalis Historia. Argomento del capitolo: la memoria.
Il flusso del racconto, come un'ipnosi durata finora, si spezza. Il narratore interrompe e dichiara di essere giunto al punto più difficile: il racconto delle ore nella stanza di Ireneo. Dalla sera all'alba, è un dialogo che è impossibile restituire. Le parole sono irrecuperabili, la memoria cede, la forma indiretta è debole, remota la possibilità di resa. È qui che, dopo l'esattezza della memoria, Borges ci lascia immaginare, liberi, l'incanto di quella notte.
Ireneo ricorda tutti i casi di prodigiosa memoria narrati nella Naturalis Historia, li elenca in latino e in spagnolo. E poi racconta di sé, manifesta il suo dono di una memoria in divenire, un continuo raggrupparsi di momenti passati e presenti, persino previsione di attimi futuri.
È immobile dentro una stanza ma ha la dote di una percezione e di una memoria infinite.
Noi, in un'occhiata, percepiamo: tre bicchieri su una tavola. Funes: tutti i tralci, i grappoli, gli acini d'una pergola. Sapeva le forme delle nubi australi dell'alba del 30 aprile 1882, e poteva confrontarle, nel ricordo, con la copertina marmorizzata d'un libro che aveva visto una sola volta, o con le spume che sollevò un remo, nel Rio Negro, la vigilia della battaglia di Quebracho. Questi ricordi non erano semplici: ogni immagine visiva era legata a sensazioni muscolari, termiche, ecc. Poteva ricostruire tutti i sogni dei suoi sonni, tutte le immagini dei suoi dormiveglia.
Ireneo ha più ricordi da solo di quanti non potranno mai avere tutti gli uomini insieme. Il narratore è rapito, non riesce a porre in dubbio il dono di Funes che, dall'oscurità della sua stanza umida, continua a parlare. Il suo mondo di ricordi è infinito, vertiginoso, impossibile da mettere a sistema:
Decise di ridurre ciascuno dei suoi giorni passati a un settantamila ricordi da contrassegnare con cifre. Lo dissuasero due considerazioni: quella dell'interminabilità del compito; quella della sua inutilità. Pensò che all'ora della sua morte non avrebbe ancora finito di classificare tutti i ricordi della sua infanzia.
Il racconto di Borges è un capolavoro già soltanto per il suo personaggio, che ha qualcosa di grande e mostruoso. "Zarathustra selvatico e vernacolare", ha un dono che lo condanna a sentire nel pensiero e nel corpo il progredire della vita e della morte, l'andare delle stagioni, il deteriorarsi delle cose, il cammino quotidiano del sole, il corso del fiume, il cadere della pioggia. Memorizza i caratteri dei libri, le parole della gente, la sua memoria arriva indietro, fino a un tempo indefinito.
È solo di fronte a un mondo multiforme, prigioniero delle proprie percezioni, precise in una maniera insopportabile. È incapace di dormire, perché "dormire è distrarsi dal mondo".
Funes è grande, "monumentale come il bronzo", come scrive Borges, ma quando il chiarore dell'alba entra nella stanza ecco che ci appare come schiavo.
Il racconto di Borges è un capolavoro soprattutto per il modo in cui ci disorienta, come smarrito è il narratore, facendoci perdere tra il sogno e la veglia. Siamo di nuovo dentro un labirinto, quello della memoria infinita, come la Biblioteca.
"Non so quante stelle vedeva in cielo" Ireneo: possiamo immaginarlo, o forse no, perché è un numero infinito. Ancora una volta Borges ci ha rapiti con le sue finzioni.
Edizione di riferimento: Jorge Luis Borges, Finzioni, traduzione di Franco Lucentini, Einaudi, Torino, 2014.
Claudia Consoli