di Giorgio Voghera
Ia edizione, Trieste, L’Asterisco, 1974;
Trieste, Edizioni Studio Tesi, ‘Piccola
Biblioteca Universale’, 1985.
pp.65
€ 4,00
Trieste sono così tante civiltà, lingue e città
in una che viverci, specialmente a cavallo tra il XIX e il XX secolo, frequentarne
i caffè, i salotti borghesi, gli intellettuali e gli artisti, è stato qualcosa
di unico, irripetibile. Talmente unico da averne innumerevoli testimonianze,
preziose e dolci. Talmente particolare, questa città, che a Trieste, dove
finisce la letteratura italiana, si chiude – opposto estremo meridionale – l’avventura
della letteratura mitteleuropea, della sua mitologia o mitogonia, così ben
raccontata dai due più bei libri di Magris, Il
mito absburgico (Torino, Einaudi, 1963), il suo primo, e Trieste. Un’identità di frontiera, con
Angelo Ara (Torino, Einaudi, 1982). La presenza di Joyce, l’arrivo – in anticipo
sul ritardo italiano – della psicanalisi nelle opere di Saba e Svevo e poi di
Mattioni, la guerra di Slataper e dei fratelli Stuparich, le influenze dell’idealismo
tedesco nelle riflessioni letterarie e storiche negli istriani Ladislao Mittner
e Pier Antonio Quarantotti Gambini, l’infanzia di Renzo Rosso e della più
recente Tamaro (Illmitz, il suo
primo, ha visto la luce solo due anni fa, per Bompiani): Trieste ha raccolto
tutte queste suggestioni, racconta questa cultura, città carica di storia e
arte al punto oggi, forse, di soffrirne, vista la contrazione della propria
grandezza, delle sue prospettive. Tra i tantissimi che ne agitarono le acque,
minori o maggiori, vi furono Guido e soprattutto Giorgio Voghera Fano,
intellettuale ebreo che appartiene, come Magris ribadisce in un ritratto bello
sebbene un po’ freddo scritto per la morte di Giorgio (nato nel 1908 e morto
nel 1999 nella casa di riposo ebraica dove da anni viveva), all’ultima genìa
dei grandi triestini del Novecento, a sua volta parte della folta schiera degli
scrittori-impiegati, che vissero all’ombra del mondo impiegatizio, coltivando
le proprie passioni grazie anche a questa tranquillità burocratica,
amministrativa – un salvacondotto alle responsabilità della vita?
Giorgio Voghera non è stato solo impiegato
assicurativo. Complice la Storia, la sua vita ha proseguito avventurosa, tra
fughe dal nazismo, approdi in Palestina, esperienze di kibbutz, infine il
ritorno nella città natale. Scrittore – discusso e controverso – di due libri
fondamentali della letteratura italiana e della critica e storia letteraria
recente, Il segreto (Torino, Einaudi,
1961) pubblicato come Anonimo Triestino, anche se attribuito variamente a lui,
al padre o a entrambi, racconto angoscioso di una passione d’amore contratta e
inibita, atto di narrazione incestuoso e psicologicamente torbido, e Gli anni della psicanalisi (Pordenone, EST,
1983), saggio sulla figura e l’opera, nella Trieste brulicante di primo
Novecento, del dottor Edoardo Weiss, Voghera ha anche scritto piccoli
divertimenti – non sempre riusciti – su temi cari alla letteratura
mitteleuropea: l’ufficio, l’amministrazione, le pieghe sofferte della
quotidianità. Il direttore generale,
libriccino pubblicato la prima volta nel 1974 dalla triestina L’Asterisco, è un
racconto agile, autobiografico, degli anni che Voghera passò alla RAS, della
conoscenza che egli fece con il suo correligionario direttore generale.
Tra
Trieste e Roma, mentre il fascismo si esaurisce tra le Leggi Razziali e la
Guerra Mondiale, Voghera racconta il mondo dell’ufficio e la figura altera e
paterna del direttore generale. Uno spaccato di vita triestina e italiana – un tempo
sparito, di rapporti cortesi, dove la cultura entrava nella vita lavorativa
nonostante le bassezze, gli arrivismi e le meschinità degli impiegati comuni –
gentile, con un accenno di amarezza che rende il ritratto meno limpido di quel
che sembri. La guerra e il fascismo, le Leggi Razziali, il Dopoguerra, le
indecisioni del direttore generale se fuggire o rimanere, le poche parole che
infine i due protagonisti si scambiano, il racconto assume il tono di un addio
crepuscolare a un tempo che non c’è più, che aveva cominciato a tramontare già
all’indomani del Primo Conflitto.