di Pietro Cagni
Le Farfalle, 2015
pp. 64
€ 10
Ogni tanto, cioè molto di rado in verità, accade che qualcosa ci ricordi che leggere un libro di poesie dovrebbe essere un'esperienza di ininterrotto stupore. A cominciare dal titolo e fino all'ultimo verso. Dovrebbe: perché libri del genere - non semplici sillogi o autoantologie ma organismi vivi che hanno per l'appunto l'unità e la necessità interna del 'libro' - non capitano tutti i giorni tra le mani (e neanche negli scaffali, tarlati o online, delle librerie).
A questa seconda categoria appartiene sicuramente l'esordio poetico del catanese (ma palermitano di nascita) Pietro Cagni, classe 1990, che per i tipi eleganti e raffinati de Le Farfalle (felice progetto editoriale del poeta-editore Angelo Scandurra) pubblica Adesso è tornare sempre. È, questa di Cagni, una scrittura potente quanto primigenia, animata da una grazia francescana che ri-scopre e ri-genera, nello spazio limitato e inadeguato della pagina, la luziana "maestà del mondo" già posta in esergo ("Che ho mai potuto dire / di te, maestà del mondo?"). Il "tornare" del poeta si delinea infatti come uno sguardo sempre inedito su una realtà vista con occhi di "meraviglia" e "candore" - lemmi-cardine del libro - che accrescono, senza mai pagare dazio a un eventuale rischio di naïveté, la sostanza della parola poetica. Proprio in virtù di questo sguardo il soggetto poetante non ha paura di chiamare le cose con il loro nome ("amore", "morte", "bellezza", "mancanza" e perfino - mirabile dictu! - "anima") e quindi di dare loro un peso specifico e collocarli nella giusta dimensione. E laddove questo "io" emerge con insistenza, già dall'attacco di alcuni testi per esempio ("io non dimentico la somiglianza"; "non mi ha creato la morte"; "io un candore così non l'ho più visto"), è solo per la necessità di palesare con chiarezza la sua natura profondamente relazionale.
Se si scava fino al cuore di questa poesia non è possibile non accorgersi di come essa sgorghi da una continua e incessante richiesta di ascolto (insieme attiva e passiva) presentata a un'alterità che qui si configura come pronome personale di seconda persona diversamente declinato nelle varie parti del libro. L'io poetico di Cagni vuole dunque porsi in ascolto di- e essere ascoltato da un "tu" che di volta in volta è presenza femminile rimodulante il motivo del saving angel, come nella prima sezione ("sulle tue guance spegnimi gli occhi"; "eppure / rimani, tu / come bel tempo"; "hai un sangue, un respiro / anche tu, che sei festa e terra / da schiantarmi in ginocchio"; "vieni / tu che puoi venire / magretta, sgarzolina / sfiancata e fatta storia / abbraccio, finalmente / memoria"), oppure fantasma silenzioso e onnipresente come nel terzo raggruppamento di componimenti ("ogni giorno ti chiamo, non posso / accogliere / se non in te la tua mancanza"; "non distolgo la faccia al tuo mancare"; "a cosa mi hai svegliato / su quale silenzio spegnere il corpo / il coro degli occhi"; "sei tu il tempo, sei tu l'ora che viene"), o ancora, come affermato in precedenza, semplicemente "maestà del mondo": "il tuo essere te / e gli altri".
È, in prima e ultima istanza, l'amore ("festa e terra", "margine e confine", "silenzio e gomiti") che, dantescamente, "muove" il libro di Cagni. Un amore che non può essere di certo confuso con l'erotismo, ma che si rivela più propriamente come paolina àgape, slancio smisurato e disinteressato di una creatura che, scoprendosi piccola e immensa, anela all'abbraccio con tutto il creato (e dunque con il creatore), "e nello stesso amore poi / andare e non avere centro":
hai ancora winnipeg nelle labbrati scorre in volto, sotto le guancelei da quanto tempo tenuta come io ho te davanti agli occhia indicare il luogo, l'ora che è asprala persona, la sua vena, la personasorgiva, amara, sfondata, la persona, la personaUn amore "sorgivo" ma mai ingenuo nel senso deteriore del termine, che. consapevole della complessità e della drammaticità della vita, interroga e si (ci) interroga, fosse pure giocando come quel "poeta" che "aveva / l'universo addosso", sulle verità ineludibili del nostro essere tempo e presenza. Da qui, allora, un approdo, conquistato e sempre perduto, sembra profilarsi davanti agli occhi stupiti del poeta-pellegrino che, inesausto, non smette di andare. E di tornare.
non mi ha creato la morte
lo sai, il tuono della terra
sarà per me la tua voce
non so se è giorno, accesa
la carne, Dio lascia ancora
che mi guardi
Pietro Russo
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