di Tullio Kezich
Ia Edizione 1959;
Trieste, Edizioni Studio Tesi, ‘Piccola
Biblioteca Universale’, 1995,
pp.95,
€ 3,00;
oppure Palermo, Sellerio, 2001,
pp.152,
€ 6,59;
Duttogliano oggi è in Slovenia e si chiama
Dutovlje. Basta questo a far entrare da subito la Storia nel racconto di
Kezich. Ma essa non emerge mai in tono cronachistico o storico, bensì emerge,
in tutta la sua potenza, dalla narrazione concreta, dal racconto.
Questo piccolo gioiello è incentrato sulla
figura di Paolo Rancovich, orfano di madre, bambino smanioso di andare al
campeggio di Duttogliano, con la Gil, la Gioventù italiana del littorio. Ottenuto
faticosamente il placet dal padre, il campeggio si rivela molto diverso da come
il bambino, orfano di madre, lo aveva immaginato. L’esperienza del campeggio,
che Paolo credeva sarebbe stata divertente e gioiosa, non è che una umiliante
sequenza di brutalità e maleducazioni, violenze e piccole ma cattive
sopraffazioni, tra capigruppo rudi, camerati vessati o vessatori, attività
meschine. Quando la misura è colma, Paolo scappa dal campeggio, rifugiandosi in
un paese vicino. Il padre lo andrà a riprendere, l’avventura si concluderà
così.
Se la trama è così semplice e lineare,
Kezich, con lingua nitida e montando abilmente la tensione, fa emergere la rete
di relazioni psicologiche, problemi dicibili e indicibili, angosce, brame,
invidie e rancori, che attraverso questa vicenda illuminano un mondo intero, in
tutte le sue contraddizioni: quello fascista, con le sue meschine dimostrazioni
di forza, i suoi esponenti provinciali, gradassi e sussiegosi, razzisti e
carichi di invidia sociale; quello borghese della provincia italiana, triestina
e istriana, in cui convivono, pacificamente a dispetto dei problemi, sloveni,
tedeschi e italiani, e dove l’italianizzazione forzata è percepita in modo
ostile anche dagli italiani stessi; quello della fine dell’infanzia, tempo di
indecisioni e inquietudini che scuotono in profondità. Paolo è felice di
tornare a casa anzitempo. Ma si strugge al pensiero che suo padre abbia visto,
nella sua fuga, una semplice nostalgia bambina per la casa, un senso d’abbandono
e nient’altro. Paolo fugge per tutt’altra ragione: ha scoperto, sulla sua
pelle, i motivi per cui il padre dubitava di mandarlo in campeggio, a quel
campeggio. Per questo, Paolo è grande, e sa di esserlo – e lo è. Ma agli occhi
del padre, questo salto non c’è stato, anzi: questo salto non è riuscito –
ancora.
Kezich, morto nel 2009 a Roma, triestino
di nascita, sceneggiatore, grande critico cinematografico e uomo di cultura,
racconta quegli anni senza cadere né in moralismi o morali ex post, né calcando
la mano su nessuno degli aspetti scottanti della vicenda (il rapporto
italiani-stranieri, la frontiera, il fascismo e l’educazione borghese),
riuscendo così a dare di quell’epoca una vivida immagine, rimanendo ancorato
alla vicenda centrale, un racconto d’infanzia.
Il racconto, che è del 1959, nell’edizione
Sellerio, rispetto alla EST, riporta non solo il racconto di cui si è parlato,
ma altri brevi ritratti, raccontini à là Saba, mitteleuropei, ambientati tutti
nel tempo a cavallo tra le due Guerre e il Secondo Dopoguerra. Un gioiello.
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