di Jean-Christophe Rufin
Traduzione di Alberto Bracci Testasecca
Edizioni E/O, 2013 (2012)
pp. 407
€ 18,50
La storia (vera): il re di Francia Carlo VII, siamo a metà Quattrocento nell’ultima fase della guerra dei cento anni contro l’Inghilterra, porta avanti un processo di accentramento che sposti l’asse del potere dai principi, ancora legati agli ideali e al vassallaggio feudali, direttamente in mano alla corona. In questo processo consolida i legami con gli elementi borghesi. La figura di Jacques Cœur, funzionario, diplomatico, mercante a livello internazionale finisce per essere, a questo riguardo, emblematica. L’azione della monarchia, colpendo le forze feudali sul piano economico e politico, libera nuove energie per inquadrarle nella nascente struttura dello Stato.
È ovvio che queste forze borghesi tendano a costituirsi in nuova aristocrazia ma l’importante è che la nobiltà borghese, meglio di tale ossimoro non saprei trovare, abbia basi di legittimazione ben diverse dalle classi sociali che l’hanno preceduta. In virtù di questo presupposto, potrà infondere nuova linfa agli apparati monarchici e porre le premesse per la grande fioritura del Cinquecento.
Jean-Christophe Rufin, scrittore, ambasciatore e tra i fondatori di Medici Senza Frontiere, si cala in questo periodo di grandi rivolgimenti e sfrutta il suo talento. Ed è grazie alla finzione romanzesca che fa rinascere un uomo: Jacques Cœur. Gli accenni di cui sopra non devono infatti trarre in inganno: di Cœur resta poco o nulla, neanche le spoglie. Ma «per il romanziere – dice giustamente Rufin – non sapere con certezza come si è svolta una vita è una grande fortuna».
Si torna al solito discorso: il romanzo è la grande invenzione dell’occidente europeo che va tradotto come atto di creazione. La creatura che ne risulta, la trama che sta dentro le pagine, se credibile, veritiera, non vera, desta meraviglia nel lettore. Il romanzo ci prende per mano e questo di Rufin lo fa mirabilmente: assume un periodo in cui muore un mondo, quello della cavalleria e delle crociate, dal nuovo che si preannuncia tira fuori un personaggio che crede nel commercio e nel denaro, nello scambio e non nell’idea di conquista, e te lo tratteggia in quella che è la sua dimensione umana. Forzando la realtà ma edificando qualcosa di verosimile. È un’operazione che stiamo portando avanti dai tempi di Don Chisciotte.
Per cui, saluto sempre con piacere la scoperta di libri simili perché, al di là del genere storico utilizzato che si può gradire o meno, riconciliano con il valore autentico della letteratura. Non a caso, il titolo dell’edizione italiana, stavolta azzeccato, richiama il sogno e non fa riferimento ad altro. È l’uomo Jacques Cœur a risaltare, la sua autenticità è dovuta al fatto che non si accontenta di capire la sua epoca, vuole trasformarla. Ciò che può intralciare i sogni di Cœur non è tanto la guerra franco-inglese che studiamo nei manuali ma la volubilità del sovrano visto sempre come un essere umano. Ancora uomini contro uomini. Si rovescia completamente l’assunto, molto hegeliano, che i singoli mortali non possano alcunché contro l’incedere dello spirito razionale che si manifesta. Qui, è proprio la Storia universale a costituire, invece, un accidente.
Jacques Cœur, proprio mentre la crescita della sua ricchezza pare inarrestabile, è combattuto, non vede nel suo ingresso fra i grandi d’Europa il soddisfacimento di chissà quale desiderio nutrito da bambino. Anzi, nel momento in cui potrebbe pavoneggiarsi, resta incline a nostalgia e a meditazioni, ricorda gli amori e le amicizie che ha perso, ha paura di cadere in disgrazia, e ne avrà ben donde. Spera, per l’appunto, di non essere ingabbiato in alcuna rete, vive con fatica anche quella dei suoi affari. Anela a essere libero e si accorge che se la vita dà qualcosa in altre direzioni conseguentemente toglie altrettanto sul terreno più caro all’uomo. Quello del sogno e della libertà di sognare. Non a caso, riversa questa suprema aspirazione, oramai braccato, nella scrittura: a Jacques Cœur, nella finzione ideata da Jean-Christophe Rufin, non resta che concludere un’opera che assume risvolti catartici. Liberatoria. Un messaggio sempre valido, universale, che il romanzo rende, a distanza di secoli dalla sua nascita, egregiamente.
Marco Caneschi