di James Salter
traduzione di Katia Bagnoli
Guanda, 2014 (2013)
pp. 351
€ 13
James Salter è morto lo scorso anno dopo aver vissuto per un bel po’. Precisamente, fino a 90 anni. Ha fatto in tempo a cambiare cognome, al secolo era Horowitz, e a condurre una piacevole esistenza, fra libri, bevute e amori. Tutto lasciava presagire ben altro, magari una carriera di pilota militare ma i destini sono strani e un combattente della guerra di Corea, quale Salter ancora Horowitz è stato, può diventare uno scrittore apprezzato da molti e prestigiosi colleghi. Su tutti cito Richard Ford e Julian Barnes, due che apprezzo particolarmente.
Agli esordi, i suoi romanzi, densi di scene di sesso, vennero considerati scandalosi e faticarono a ritagliarsi uno spazio nelle università, le sceneggiature, ben pagate, di film non memorabili lo tennero invece lontano dal cuore dei critici americani. Poi, nel 1975, esce “Una perfetta felicità”, in Italia edito da Guanda, e per Salter si spalanca la strada del successo.
Con “Tutto quel che è la vita”, il titolo d’altronde è piuttosto esplicito, Salter non si concentra su un particolare periodo del personaggio principale ma sull’intero arco della sua vita. Il protagonista si chiama Philip Bowman ed è facile cogliere aspetti che ne fanno una sorta di alter ego dell’autore. L’inizio è eroico, per non dire epico. Troviamo infatti Bowman nel Pacifico durante la seconda guerra mondiale mentre gli Stati Uniti stanno per sferrare l’attacco definitivo al Giappone. Mi sono detto: se il libro prosegue così, mi trovo davanti a un capolavoro. L’affondamento infatti dell’ultima meraviglia navale nipponica da parte della flotta Usa proietta in una dimensione di notevole coinvolgimento e lascia il lettore atterrito e stupefatto.
Poi arriva il resto: il primo matrimonio, la separazione, la professione di editor, i tanti amori, i viaggi, le case comprate e perdute, insomma una vita di ordinario agio occidentale filtrata attraverso le lenti dell’introspezione. Con poche concessioni alla gioia o alla felicità. Dunque, tutto bene? A mio giudizio, no.
Prendiamo ad esempio il secondo amore della vita di Bowman, una signore elegante conosciuta a Londra e con la quale sembra scattare una scintilla tale da alimentare il fuoco della passione inesauribile. A un certo punto, di questa donna si perdono le tracce. Repentinamente. Va bene che nella trama si accentua fino alla noia il carattere di Bowman quale personaggio solitario, tipo invitato a una festa in maschera che se ne sta in disparte, ma allora non colgo il senso di un personaggio femminile che non fa un ingresso bensì un’autentica irruzione nella vita del nostro.
Terzo amore: una donna di origine greca di bellezza inesauribile. Sarà lei, questa volta, a lasciare Bowman con un palmo di naso rivelandosi anche di un cinismo odioso. A un certo punto, sono passati alcuni anni, Bowman andrà a letto con la figlia della donna, in una Parigi poco glamour. Per cosa? Vendetta? Dimostrazione di virilità? Noia? Nulla di tutto ciò emerge con forza, Salter privilegia sempre un’eleganza narrativa, utile a dare di Bowman un ritratto di malinconica sensibilità, senza però quella giusta dose di cattiveria che serve a dare spessore a certe situazioni.
Per concludere: a discapito delle premesse, il romanzo evapora in un mosaico privo di gerarchie sentimentali dove ogni fase dell’esistenza e ogni persona incontrata meritano il medesimo sguardo. Lo stesso fantasma di García Lorca, poeta fucilato dai franchisti dopo essere stato costretto a scavare la propria fossa, è trattato come un qualunque personaggio secondario. Che va bene, ribadisco, se è la conseguenza di una scelta consapevole. Tuttavia la questione diventa: perché scomodarlo? Dice: è lo stile di Salter, peraltro celebrato come accennavo all’inizio, ma è uno stile che a lungo andare può indurre freddezza.
Marco Caneschi
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