La nemica
di Irène Némirovsky
Passigli, 2015
pp. 152
€ 10,00
pp. 152
€ 10,00
Titolo
originale: L’Ennemie
Traduzione di
Maurizio Ferrara
È difficile
mantenere un punto di vista oggettivo durante la lettura de La nemica di Irène Némirovsky. Il
romanzo è molto breve, denso di emotività più che di eventi. La trama è labile,
perché ciò che preme all’autrice è descrivere il rapporto complesso ed
autodistruttivo che lega indissolubilmente due donne.
Francine, la madre, è
infantile, esuberante, egoista. Amante della vita libertina che si può condurre
in una Parigi pettegola e gaudente, trascorre le sue giornate dimentica delle
due figlie, Gabrielle e Michette, che crescono sole e selvatiche, fino a quando
una tragedia si porterà via la più piccola. La superstite, Gabri, indirizza la
propria esistenza in modo da opporsi nel modo più evidente al carattere della
madre: tanto l’una è garrula e leggera, tanto l’altra è silenziosa e
riflessiva. La sua infanzia è segnata dal trauma della perdita della sorella, così
come da una sete di amore infinita e sempre frustrata, che diventa ben presto
esigenza insopprimibile di vendetta, “desiderio frenetico di distruzione” (p.
92). Attraverso gli occhi della bambina, la donna viene presentata in toni
impietosi e crudeli, come una creatura vuota di sentimenti e patetica nel suo ossessivo
attaccamento ad una gioventù presto sfiorita, incarnazione stolida e inconsapevole
della regina cattiva di Biancaneve:
“Francine cominciava a passare notti insonni, a piangere, a rammaricarsi, a disperarsi, a cercare nello specchio, avidamente, con un’angoscia orribile, i primi capelli bianchi, le prime rughe, a mascherarle, a truccarsi, a ingoiare le lacrime, a percorrere infine il lungo calvario delle vecchie innamorate” (p. 97).
Chi abbia
familiarità con le opere della Némirovsky e le sue vicende biografiche riconosce
subito nel ritratto caricaturale di Francine quello di Anna/Fanny Margoulis,
madre di Irène, che come i suoi molteplici alter ego letterari era stata sempre
una figura genitoriale assente e inadeguata.
L’impressione che si trae ad una prima lettura è che l’acredine che
emerge dal testo non sia quella di Gabri, ma piuttosto quella dell’autrice
stessa, e che in questo si celi la debolezza dell’opera: la rabbia mai sopita
della scrittrice la porta spesso ad una perdita di controllo sul materiale
narrativo, che va incontro a pericolose derive melodrammatiche. Eppure lo
stesso coinvolgimento che per certi aspetti danneggia il romanzo, per altri ne
costituisce il punto di forza: le dinamiche psicologiche e dialettiche che
oppongono la figlia alla madre, probabilmente vissute in prima persona dalla
giovane Irène, sono rappresentate con sferzante e dolorosa precisione. L’autrice
sottolinea magistralmente come la durezza della figlia scaturisca dalla sua
fragilità e dalla percezione di una fanciullezza rubata che a tratti vorrebbe
riemergere, prepotente e commovente al tempo stesso:
“Per la prima volta da molto tempo tutta la sua infanzia dimenticata le pervase di nuovo il cuore, come una grande ondata di allegria. Spalancando la bocca in un grido di trionfo che tuttavia tratteneva, per prudenza, si mise a girare come una trottola su se stessa, con i capelli che le sferzavano il viso. Per esprimere la sua felicità folle, scellerata, non trovava altro da fare che gesti da ragazzina, danze da selvaggia” (p. 56).
La dicotomia
iniziale tra l’innocenza di Gabri e la colpa di Francine si va però stemperando
con lo scorrere delle pagine: pare quasi che l’autrice passi da un tentativo di
autolegittimazione ad un’analisi più lucida delle relazioni parentali e della
personalità delle protagoniste. Si inizia allora a comprendere che quanto più
la ragazzina ribadisce la propria diversità rispetto alla madre, tanto più finisce
per assomigliarle, per ripercorrerne le orme, per inscriversi in un tracciato funesto
e già delineato. Al contempo, la madre appare colpevole soltanto di non
riuscire ad essere diversa da com’è, congelata in un’adolescenza mai conclusa, in
una reale incapacità di comprendere ciò che la circonda. È cieca, Francine, e
non vede la figlia farsi donna e poi rivale, innamorarsi del suo amante,
riavvicinarsi a lei proprio mentre si prepara a colpirla più duramente alle
spalle. La lacerazione interiore tra il potere attrattivo del sangue e il
dirompere libero della passione non può che condurre ad un epilogo tragico, degno
di una lunga tradizione letteraria.
Per chi ama il
linguaggio moderno e incisivo dell’autrice, lo stile pregnante grazie al quale
ogni parola assume un peso specifico all’interno dell’economia narrativa e un
testo scritto negli anni Venti sembra essere stato prodotto in epoche ben più
recenti, La nemica è un'opera imprescindibile.
Il suggerimento è allora quello di sospendere il giudizio e di lasciarsi toccare
dall’intensità della storia, al di là delle evidenti debolezze strutturali.
Carolina Pernigo
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