di Meelis
Friedenthal
Traduzione di
Daniele Monticelli
Iperborea, 2015
pp. 250
16,50 €
Le api di Meelis Friedenthal è un libro
eccentrico per almeno tre motivi. Eccentrico è l’autore, ovvero Meelis
Friendenthal, che prima di essere un narratore/scrittore è anche un ricercatore
e docente di Storia delle idee nell’Europa del Seicento presso l’Università di
Tartu. Eccentrico è il luogo in cui sono ambientante le vicende, ovvero
l’Estonia del Seicento, quando faceva parte del fiorente impero svedese
dell’epoca. Ed infine è eccentrico perché eccentrico è il suo personaggio
principale, quel Laurentius Hylas di cui non conosciamo al contempo quasi
nulla, né dove sia nato, né esattamente quando, e tutto, dato che sappiamo, o
meglio veniamo sempre più a conoscere la sua anima.
Definire questo un romanzo filosofico
sarebbe come fare un torto, o per meglio dire una "diminutio", alla qualità della scrittura, resa in maniera
davvero molto buona da Daniele Monticelli, dato che seppur la vicenda in sé non
possa essere sicuramente definita “avventurosa e avvincente” nel senso classico
del termine, lo diventa se si presta attenzione alle sfumature, quelle sì,
filosofiche e esistenziali proposte da Laurentius Hylas. Uno studioso “vagante”
dell’Europa del Nord della fine del Seicento, imbevuto di studi classici ma
anche incuriosito dalla “nuova scienza” che da Cartesio in avanti stava
dilagando per tutto il Continente. Eppure Laurentius, che vediamo inizialmente
accompagnarsi da un bizzarro quanto variopinto pappagallo di nome Clara, sembra
quasi appartenere ad un’altra dimensione, non pare mai perfettamente inquadrato
nel tempo presente. Ad esempio egli giunge Tartu, la sua nuova città
universitaria, dopo un periodo di studi in Olanda. E già questo dovrebbe porre
molti dubbi dato che l’Olanda del ‘600 era quanto di meglio si poteva chiedere,
a livello scientifico e accademico in tutta Europa (con la sola esclusione,
forse, di Oxford e dintorni). Eppure, per tutta una serie di ragioni, non
ultime di “bile”, Laurentius prende armi e bagagli e si rifugia nell’estremo
est dell’impero svedese. Finisce, volontario per così dire, a Tartu sede della
seconda università del regno.
Perché sceglie proprio Tartu? Forse perché Laurentius vuole scappare dai propri fantasmi e dalla propria melancolia, quell’umor nero che non smette mai di accompagnarlo in modo fedele e inquietante, che finisce per “avvelenargli” tutto. Perché lo studioso vive “sconnesso” dagli altri e tutte le volte che si trova, ad esempio all’università, a dover fare i conti con i propri simili, si sente a disagio, un sapore di “marcio e fango” gli impasta la bocca e non riesce a pensare lucidamente.
Quasi immediatamente viene colto da una
strana febbre, non si capisce quanto reale e quanto immaginata, che però lo
rende sempre disorientato nella vita e nelle relazioni.
Come se non bastasse, e qui Friedenthal
lo descrive con grande maestria, Tartu a quell’epoca era nel vortice di una
fortissima carestia che aveva portato la città ad essere ben presto “invasa” da
nugoli di poveracci e gente miserabile, venuta a frotte dalle campagne in cerca
di cibo e, chissà, di una chance per la propria esistenza. Fin qui lo scenario.
Ma che cosa fa Laurentius a Tartus? Soprattutto si rode e si consuma
dall’interno, con quell’olezzo di putrido che gli sale dalle narici tutte le
volte che si apre gli occhi alla mattina. È la bile nera, l’orrido fluido che
secondo la scienza antica governa gli umori del corpo umano, a crescere in lui.
Causa principale, oltre alla costituzione “cronica” di ciò, è anche la morte,
forse per avvelenamento, poco prima di giungere in città, del pappagallo
Clodia, l’unica vera “amica” e sodale di Laurentius che con la sua presenza,
colorato e allegra, riusciva ad allontanare lo spettro della malinconia dalla
sua vita. Ora il pappagallo non c’è più e Laurentius sprofonda nel nero della
sua bile. In più un vecchio, incontrato poco fuori le mura, si avventa, famelico,
sulla gabbia contenente il corpo ormai senza vita della sua “amata” Clodia e la
divora. Un triste e inquietante presagio?
Incontra figure ambigue di studenti e
professori e si mette a studiare l’anima. Per lui, aristotelico della prima
ora, quel nuovo mondo moderno, così netto, matematico e scientifico, nonostante
non lo rifiuti a priori, pare andare stretto. Ecco perché Laurentius, dopo aver
superato abbastanza brillantemente l’esame di accesso all’università, si mette
a scrivere un trattato proprio sull’anima. Egli lo fa perché ne è quasi
costretto, visti i suoi malumori e quel sapore marcio che mai lo lascio solo.
Friendenthal non ce lo dice mai in maniera precisa ma pare che Laurentius sia andato via da Leida, dove studiava, perché tacciato di portare il malocchio. Per questo lo studioso non guarda mai negli occhi le persone, che siano importanti rettori d’università o che siano povere mendicanti incontrante lungo la via. Quella mancanza di sguardo, ovvero del primo segnale dell’animo umano, è forse causato dalla bile nera.
Per questo motivo quando, durante la
fase finale del libro, densissima di accadimenti, egli si decide finalmente di
guardare negli occhi le persone pare mutare il suo destino. Merito è di Clodia,
misteriosa figura, forse parto della mente forse felice circostanza della vita
che gli fa visita di notte. I suoi capelli neri odorosi dei fiori notturni
rincuorano lo spirito e il cuore di Laurentius. Il pane offertogli da quella ragazza, che sa di miele, che pare impastato col miele, gli ristora
le membra e i muscoli. Quel “messaggero di un mondo migliore” potrebbe
rappresentare l’unico appiglio per venire fuori da quell’universo oscuro in cui
lo studioso è sprofondato. Che la salvezza dell’anima non sia tutta racchiusa
in una pagnotta appena sfornata oppure nella cella di un’arnia ricolma di biondo
miele?
Tutte le esperienze e le azioni si imprimono nella nostra anima come su una tavoletta di cera, e proprio come un’immagine non esiste se nessuno la dipinge, noi non esistiamo se non abbiamo fatto esperienza di qualcosa. La nostra anima e noi stessi esistiamo solo in ciò che facciamo, agendo e patendo. Altrimenti non rimane che un guscio, una tavoletta di legno vuota, tabula rasa.
Vincitore del Premio dell’Unione Europea
per la letteratura nel 2013, Le api è un libro ricco di spunti per comprendere
meglio uno spicchio, decisivo, di quella che potrebbe definirsi “l’anima
d’Europa”. È una lettura molto consigliata, specie in questi bui. Perché, sulla
scia di Starobinski, se è vero che “la melanconia è la malattia del continente
per eccellenza, tanto vale immergervi dentro per toccarne il fondo e saggiarne
la consistenza”. Daniele Monticelli, il traduttore e curatore (professore di
italianistica e semiologia presso l’Università di Tallin), usa per questo libro
la felice definizione di “anatomia di un sentimento”. Indi per cui non abbiate
il timore di “aguzzare la vista e affondare il bisturi” per notare i muscoli e
i tessuti più nascosti.
Mattia
Nesto
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