Anomalie
di Mauro Covacich
Bompiani, 2015
pp. 192
€ 12,00
pp. 192
€ 12,00
Leggere Anomalie
dopo aver letto La sposa produce una
forte impressione di straniamento. Si percepisce distintamente di aver
sovvertito un ordine logico, di aver violato la coerenza sequenziale di un
progetto. Le due opere si implicano a vicenda, ma l’ordine di composizione pesa
sul materiale narrativo, cosicché la scelta di Bompiani di ristampare il primo
volume – pubblicato inizialmente da Mondadori nel 1998 – dopo il successo del
secondo confonde le acque, così come il lettore poco attento alla cronologia
degli eventi.
Aiuta a chiarire le idee l’inedita prefazione autoriale: si
tratta al tempo stesso della lettura retrospettiva di una silloge composta da
quasi un ventennio, di una dichiarazione di poetica e d’intenti, nonché di una
proposta interpretativa che consenta al pubblico di decifrare un percorso
letterario ben preciso. Anomalie e La sposa (che nelle intenzioni di
Covacich avrebbe dovuto intitolarsi non a caso Nuove anomalie) possono
essere letti come concept album:
dunque itinerari creativi che, attraverso il raccordo di singole partiture e
una fitta serie di rimandi interni, raccontano un’unica storia sulla realtà
contemporanea. Il modello letterario di riferimento è costituito da I sillabari di Goffredo Parise, una straordinaria
opera in due tempi che cerca di comporre un nuovo alfabeto dell’anima, di
riprodurre un balbettio primigenio che riporti alla luce i sentimenti
fondamentali per l’essere umano negli iper-politicizzati anni ‘70. Come quelli
di Parise, anche i racconti di Mauro Covacich partono senza enfasi, dalla
quotidianità, dall’evento minimo che potrebbe passare inosservato e si rivela
invece un punto di svolta esistenziale. La letteratura si fa portatrice di una
specifica missione etica: testimoniare il vero, essere verità. E questo è possibile soltanto se l’autore si implica
personalmente, se attinge con generosità e senza reticenze a quello che conosce
e che lo costituisce come individuo: “lo scrittore deve gettarsi in mezzo alle
cose, affrontarle, farne esperienza. Solo se esce di casa, solo se si sporca le
mani, può sperare che la sua vita diventi scrittura” (p. 10).
La sincerità tagliente, quella di chi dice le
cose senza paura di far male a se stesso e al lettore, è il tratto che accomuna
gli undici racconti di Anomalie. La
raccolta si apre e si chiude con due testi dedicati alla guerra civile nella
ex-Jugoslavia, e allo stesso argomento si rifà anche il pezzo centrale, il
sesto, che ripartisce l’opera in due sezioni equivalenti. Alla guerra nelle sue
infinite declinazioni routinarie si riferiscono però anche tutti gli altri
brani: guerra è lo scontro tra due donne per il controllo sui resti di un uomo
– un padre, un compagno – amato da entrambe; guerra è il conflitto interiore
degli insegnanti, costretti a confrontarsi ogni giorno con le proprie pulsioni
e con la soggettività prepotente dei loro allievi; guerra è anche la frattura
perfettamente celata tra una facciata di perbenismo cattolico, piccolo-borghese
ed ecologista e la meschinità di pensieri e azioni di un gruppo di giovani in
una realtà paesana bigotta e asfissiante.
Si percepisce la giovinezza, in Anomalie, l’idealismo frustrato, l’irruenza
della parola, e non è un male. Se qualcosa può essere rimproverato a La sposa è forse proprio l’eccessivo controllo,
la complessità dei rimandi interni e dell’architettura compositiva, che fa
perdere incisività ad alcuni dei racconti. La forza di Mauro Covacich è nello
sguardo traverso sulla realtà delle cose. Le storie, che lui racconta col
piglio del bozzettista che di un’esistenza immortala solo un frammento fugace,
ti restano incise dentro. Sono storie di gente che non si rassegna, gente che
si culla nelle proprie convinzioni – spesso illusorie – e lotta senza
risparmiarsi contro la vita che vorrebbe strappargliele. Si anticipa qui un
elemento che caratterizzerà anche le opere successive, ovvero la totale astensione
da giudizi di valore: Covacich non vuole distinguere il bene dal male,
etichettare i buoni e i cattivi. Vuole semmai dire che esistono gli uni e gli
altri, e che i ruoli spesso si invertono imprevedibilmente e secondo modalità
impensate. Vuole dire – così come aveva provato a fare in Storia di pazzi e di normali (1993) – che l’essere umano è una
scheggia impazzita alla deriva nel cosmo, al di là di ogni pretesa di
razionalità, e che la verità si nasconde nell’esperienza individuale condotta
con una coerenza che deve essere sempre interna, non imposta (né valutata)
dall’esterno. La logica che nel testo viene continuamente proposta e difesa è
una logica intima, unilaterale, che può risultare sconcertante ai più, ma che
traina come un cavo d’acciaio i protagonisti dei racconti, orientandone le
azioni, i pensieri e i comportamenti. Una logica che, contro ogni aspettativa,
salva, riscatta e commuove:
“Aveva paura anche lui, certo. Non sapeva niente se non che
la luce, di lì a poco, sarebbe andata via e lui l’avrebbe seguita. Eppure era
convinto che sarebbe stato premiato. Senza averne un motivo apparente, credeva
che sarebbe arrivato finalmente quel mattino tanto atteso in cui alzarsi dal
letto, infilare le pantofole e sentirsi come d’incanto alleggeriti da un peso”
(p. 165).
Carolina Pernigo
Su La sposa ha scritto più diffusamente Mattia Nesto: leggi qui.
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